"SIGFRIED"

Memorie d'altri Tempi ...quando le corse erano ancora corse vere e quando i piloti erano ancora dei semplici uomini con un cuore grande così...


Il 10 novembre 2006  un utente di Driving Italia ha aperto una discussione interessantissima, una sorta di libro dei ricordi. Sigfried, così si firma, e' un pilota che correva tanti anni fa con le vetture riprodotte nel gioco GT Legends. Si parla anche di Targa Florio, e credo che sarete colpiti da come ne parla. L'ultimo intervento è del 14 dicembre, poi, purtroppo, il silenzio... Spero che qualcuno si faccia avanti nel riconoscerlo. Grazie, "Sigfried".

Inizia qui il Diario di Sigfried.........
Posted: Fri Nov 10, 2006 3:27 pm Post subject
Parte Prima

...."E’ la prima volta che scrivo in un forum e devo dire che ho trovato molto interessanti gran parte di quello che scrivete. Io sono un “vecchio” pilota, sì uno di quelli che correvano con le auto di “Gt legends” e devo proprio confermarvi che non soltanto le auto, ma anche i tempi erano leggendari perché pur dopo lotte serratissime, ci si trovava poi la sera tutti insieme a mangiare, a scherzare, ed a prenderci in giro.
Ciò che ho trovato assolutamente sorprendente in questo simulatore è l’assoluta, incredibile fedeltà di feeling, al punto che è veramente difficile rendersi conto che si tratta soltanto di un gioco. Per esempio, nelle staccate più violente il retrotreno della Cortina Lotus prendeva a saltellare: bene la stessa identica cosa mi è capitata alla staccatona in fondo al rettilineo di Mondello Park.
Io ho corso soprattutto con Lotus (Elite, Elan ,Cortina..e altre) e devo dire che le sensazioni, gli assetti, le prestazioni del gioco sono incredibilmente vicini alla realtà: naturalmente nella simulazione la condotta, la guida può essere più “garibaldina” poiché non si rischia di fare danni all’auto o a se stessi, ma per il resto … sono tornato a sensazioni ed emozioni che pensavo di non poter più riprovare.
Pilotando a Misano, nel curvone di raccordo - quello che porta al rettilineo del Tramonto - mi son trovato con la testa piegata verso sinistra, per contrastare un’immaginaria forza centrifuga…
E che dire del minaccioso rombo dei V8 americani che si avvicinano negli allunghi…per poi allontanarsi alla prima staccata?
E a proposito di Misano, è lì che ho fatto l’ultima gara nel ’97 con una Lotus Elise …ed lì che ho deciso di smettere, perché proprio alla fine della gara ho fatto il miglior tempo, ma sono arrivato solo 4° o 5° . Riflettendo su questa incongruenza, ho capito che non avevo più la voglia, o la capacità d’impegnarmi come prima ed allora ho pensato che era meglio piantarla lì…
Purtroppo in GT legends manca il circuito principe: la Targa Florio.
Sarebbe impossibile farne una copia per GTL? All’epoca, si distinguevano i piloti tra quelli che non l’avevano mai fatta e quelli che l’avevano corsa…10, 11 giri in un circuito di 77 km. se non ricordo male…Era difficile trovare il ritmo giusto, cioè essere veloci senza il rischio di andar fuori, altrimenti era veramente finita !
Il mio grande rimpianto è quello di non aver mai fatto Le Mans…ma ci proverò con GTL.
Grazie dell’ospitalità ed in bocca al lupo a tutti.
Sigfried
PS: Ho letto da qualche parte nel forum che qualcuno si chiedeva come fosse il comportamento dei pneumatici e cioè se degradassero o meno: in realtà i “Dunlop Racing” avevano delle mescole (sia la morbida che la media) la cui resa era piuttosto costante, era piuttosto la vettura nel suo insieme (motore – cambio – assetto) che “degradava” sensibilmente…, per le Lotus soprattutto la parte ciclistica: era facile perdere le ruote anteriori su Elan ed Elite !!!"....
Posted: Fri Nov 10, 2006 3:27 pm Post subject:
Parte Seconda

".....Grazie per l’accoglienza…e veramente dovrò limitarmi nei racconti, sia per questioni di tempo, ma anche per non apparirvi un po’ Narciso…e poi si sa, i “vecchi” rompono sempre con i loro ricordi…
Dunque: non ho mai fatto Le Mans ed appunto dicevo che è un mio grande rimpianto. Ho corso invece diverse volte la Targa che per me, e limitatamente alla mia esperienza, è stata la gara più bella del mondo.
Era un circuito che veniva chiuso al traffico per l’evento (prove e gara), e si snodava per più di 70 km. (77 mi sembra di ricordare) tra le Madonie. Prima 10 giri (ovviamente con cambio piloti) e poi 11, per via di un minimo cronologico delle gare di durata del Campionato Mondiale Marche.
Si cominciava a provare, sul circuito ovviamente aperto al traffico, una settimana prima per imparare il tracciato o rinfrescarne la memoria, prendendo atto dei cambiamenti, dei rappezzamenti d’asfalto che erano stati fatti (l’asfalto stradale nuovo ha molto meno grip di quello vecchio, in pista usano altre diavolerie…); si prendevano in affitto delle auto alla Hertz, o Maggiore o Avis a Punta Raisi, vetture che venivano restituite – quando non recuperate dal carro attrezzi sul percorso o in un dirupo – sfiancate, senza più frizione e con gomme alle tele, e l’anno successivo c’era il problema di trovare un prestanome che noleggiasse l’auto, perché il tuo nome era scritto in una lista nera di utenti…
Le forze dell’ordine, Carabinieri e Stradale, lungi dall’avere un atteggiamento persecutorio nei nostri confronti, avevano invece una tolleranza estrema che definirei collaborativa: per esempio se c’era una curva cieca e loro erano lì…t’indicavano chiaramente che potevi tagliarla, perché dall’altra parte non veniva nessuno…
Tuttavia non sempre era così: a me è capitato che provando il venerdì pomeriggio con l’auto che era appena arrivata, su strada aperta al traffico e con un’improbabile targa inglese (sic!) sulla discesa di Campofelice abbia tagliato un po’ troppo una curva e rischiato un frontale con un’Alfa della Stradale che veniva su. Appena arrivato in paese mi sono fermato, pensando che magari mi avessero messo un posto di blocco: subito si è formato intorno un capannello di gente ed uno di loro mi ha detto: “a disposizione, non si preoccupasse, ‘a machina la nascondiamo nel mio garage e noi intanto ci pigliamo un bello café ! ” . E così ho fermato un altro pilota perché avvisasse a Cerda i miei perché mi venissero a recuperare con il furgone dentro cui nascondere la macchina. E davvero c’era un posto di blocco con una fila di macchina pronte per la gara ferme lì…
Poi ho rischiato di prenderle perché per quel pomeriggio i controlli erano diventati ferrei, le multe e le minacce di sequestro delle auto erano fiocchiate e tutti si chiedevano perché e di chi fosse la responsabilità per questo mutato atteggiamento della polizia…
Si provava tutto il giorno e talvolta ci si fermava a chiacchierare sul percorso per scambiare impressioni e consigli. Poi la sera si era tutti a Cefalù, nelle trattorie a mangiare pesce. Ricordo gli squadroni Porsche ed i loro piloti, bravi quanto professionali, simpatici ed alla mano. In particolare mi era capitato di avere un buon rapporto con Vic Elford e Brian Redman: grandi stradisti e grandi cazzeggiatori.
Io ero allora in una categoria che si poteva definire di semi professionismo, un genere di “gentlemen drivers” oggi quasi scomparso, che secondo me ha avuto la massima espressione in Moretti: una sorta di Marzotto degli anni ’70 per intenderci.
In Targa c’era un gran guazzabuglio di piloti: si andava dai professionisti delle grandi squadre – leggi: Porsche, Ferrari, Alfa, Lancia ecc. – al dilettante locale che doveva stare ben attento a non intralciare il passo dei grandi (ed anche dei “medi” come me) perché si sarebbe trovato fuori strada senza neanche accorgersene. Comunque non c’era mai un atteggiamento di spocchia, o di sufficienza o di superiorità verso chi era meno bravo di noi, o se volete meno fortunato.
Il fatto di correre insieme la Targa, ci faceva sentire tutti interpreti di un evento straordinario che affondava le sue radici proprio agli albori delle competizioni di auto e nello stesso tempo, per le difficoltà intrinseche del tracciato, ci sentivamo accumunati in un’impresa che non era facile da portare a termine: ciascuno nella propria dimensione.
Si partiva dalla periferia di Cerda dove c’erano dei boxes che già allora si potevano definire approssimativi: il parco chiuso era praticamente in un campo sterrato limitrofo…
La partenza veniva data come per le gare in salita: 1 minuto di distacco tra un’auto e l’altra, 2 minuti al passaggio di categoria.
I primi chilometri si facevano un po’ con il cuore in gola, sia a causa dell’adrenalina accumulata nell’interminabile attesa del via, ed anche perché sino a Cerda l’asfalto era piuttosto viscido: aveva poco grip, come si dice adesso. A questo si aggiungeva la terra che inevitabilmente le macchine degli spettatori, facendo manovre impossibili per parcheggiarsi ( o meglio arroccarsi) lungo il percorso, aveva portato sull’asfalto. Quindi bisognava stare molto in campana, osservando il più possibile le condizioni dell’asfalto e la presenza di terriccio. Sicuramente, uscire dalla traiettoria che già le prime macchine avevano tracciato, era uscire di strada, ed un’uscita di strada in Targa era equivalente al ritiro.
Dopo l’attraversamento di Cerda si cominciava a salire e l’asfalto migliorava come grip, mentre peggioravano le condizioni del fondo, ma questo mi piaceva, anzi mi “confortava” perché sentivo meglio l’auto nei sui salti sullo sconnesso e quindi la percezione delle sue reazioni ricreava quella simbiosi per cui auto e pilota diventano un corpo unico.
Passata Cerda quindi, cominciavo a sentirmi più a mio agio e prendevo il mio ritmo, cercando di non esagerare per non rovinare tutto in un attimo. Ovviamente questo dipendeva anche dal fatto che le gomme erano entrate in temperatura, il livello dell’adrenalina si stava abbassando ed era ( per me) passato il timore di uscire come un cretino alle prime curve…
Dopo la salita, si scollinava una prima volta ed iniziava una lunga discesa verso un ponte su di un torrente. Era un tratto molto bello: la folla variopinta ai margini dell’asfalto, gli spettatori che si sporgevano sulla strada per incitarti ( e da questo capivi che stavi andando forte rispetto a chi era passato prima…) ed anche il paesaggio intorno che comunque non potevi non vedere quando lanciavi un’occhiata lunga per confermare a te stesso la memoria del tracciato.
La conoscenza del percorso era ovviamente fondamentale: la prima volta non è stato certo facile da imparare (70 km!!) ed io comunque – come altri - mi aiutavo tracciando dei segni di pittura sui cartelli stradali, sui muretti a secco, sui paletti. Molti segnavano con dei numeri il tipo di curva, qualcuno alzava ..il numero per ingannare gli altri (per es. indicava 3 per 2…), io invece segnavo le traiettorie nelle curve che istintivamente ero tentato di anticipare ( in genere si “anticipa” una curva quando non la si conosce bene e si è in una condizione quasi di soggezione nei suoi riguardi…) e quindi i miei segnali indicavano che dovevo “arrivare sino a lì” prima di buttarmi dentro.
Prima di quel ponte sul torrente, c’era un tornatone a sinistra che compariva improvvisamente dopo una destra chiusa e quindi dovevi staccare prima di questa destra per poi riuscire a frenare ed impostare il tornante. Poi un paio di sinistra-destra veloci in discesa, e altro tornante a destra (dove una Porche buttò fuori un’Alfa 33 che non dava strada entrandogli dentro in staccata e – come mi dissero – toccandone maliziosamente la coda …)
Passato il ponte dove si ammucchiavano migliaia di spettatori, si ricominciava a salire: 3 o 4 tornanti e poi un misto veloce a metà monte che preparavo benissimo e conoscevo a meraviglia perché a mio avviso era lì che si faceva il tempo e difatti lì andavo veramente molto forte, quasi al limite. Direi che fossero 7 o 8 km. che avevo fatto a piedi più volte quasi per intero, un tratto di strada che sentivo, che amavo e dove avevo scoperto il Cippo Masetti, in memoria del conte Masetti che era morto proprio lì negli anni 20, credo di ricordare…
Da lì si arrivava al bivio Caltavuturo, curva famosa e spettacolare: bisognava stare attenti a non farsi prendere dall’entusiasmo della gente…
Appena superato il bivio, avevo la prima segnalazione dalla scuderia, su posizione e distacchi.
Da lì si ricominciava a scendere, poi salire e poi scendere ancora per Collesano: si attraversava il paese in leggera discesa ( a Collesano Vaccarella spezzò il cerchio della P4 contro un marciapiede) e si andava verso il tratto (per me) più pericoloso della Targa: la lunga, velocissima discesa da Collesano a Campofelice: tutto in terza/quarta, qualche curva in seconda e poi via ancora: terza, quarta, terza, quarta, quarta/seconda, terza e via così con platani colossali che incorniciavano il percorso e che era meglio far finta che non esistessero…
Lì era veramente dura (almeno per me) tener giù il piede, l’asfalto aveva con poca aderenza, l’auto andava via molto di muso e non c’era altro da fare che anticipare molto e sperare di aver preso la misura giusta…Comunque, nonostante le mie paure, non andavo male neanche lì…ma era dura. Dicevo sempre che la discesa verso Collesano era un atto di fede. E basta.
Ad ogni giro, vedere il passaggio a livello di Campofelice (ed ancora prima il cancello di una villa sulla sinistra) era per me un sollievo…
Poi, si attraversava Campofelice, un paio di tornanti in discesa e si entrava nel rettilineo di Buonfornello. Una dritta di 7 o 8 km (ricordo bene?) su una strada a dorso di mulo: si metteva per la prima volta la quinta che era piuttosto lunga rispetto alle altre marce e mirata esclusivamente per il Buonfornello.
Siccome il rapporto era tanto più alto rispetto a quello della quarta, il motore calava molto di giri e si aveva tempo per tirare un sospiro, controllare bene gli strumenti e dare un occhiata in auto… che tutto fosse a posto, per esempio che l’estintore fosse ancorato al suo supporto e non in giro per l’abitacolo.
Ma questo momento era breve: il motore riprendeva i suoi giri e ci si trovava a intorno ai 240 su di una strada che diventava stretta come un budello, a dorso d’asino, con buche ed avvallamenti che spingevano l’auto ( o meglio: la buttavano!) a destra e a sinistra. Era dura tenere saldo il volante che riportava sui polsi tutti i colpi che prendeva; era difficile tenere l’auto in linea ed anche non chiedersi come il telaio e la ciclistica resistessero…
Si arrivava poi ad un curvone lunghissimo, sulla sinistra, nel quale era difficile resistere alla tentazione di anticipare la corda e invece bisognava farlo e mi dicevo, aspetta, aspetta, aspetta…ora: DENTRO e giù il piede. Che bello ragazzi, sentire lo scoppiettio secco del motore in rilascio e poi l’apertura del gas, con la macchina che sia proiettava dentro la curva e scivolava via libera verso l’uscita…
Insomma, dopo un paio di km. da questo curvone si ripassava davanti ai boxes: cartello di segnalazione ed un pensiero: il primo giro è fatto… via così !........"
Posted: Fri Nov 10, 2006 3:28 pm Post subject:
Parte Terza

........"Mi sembra di essere il nonno che racconta ai nipotini davanti al camino…E veramente nonno lo sono già !!!
Qualcuno mi chiedeva della Pantera. E’ un’auto che non ho mai guidato, ma mi è capitato un anno di batterla diverse volte con una Ferrari Dino 246. Quell’anno lì avevo detto a mia moglie, in dolce attesa, che avrei smesso di correre. Ancora nei primi anni ’70 le gare erano piuttosto pericolose, le misure di sicurezza in auto ed in pista molto approssimative, se non inesistenti, e non parliamo poi delle gare su strada…Così mi ero svincolato a malincuore da un impegno semi-professionale che mi vedeva legato ad una squadra… ma si sa, il lupo perde il pelo, ma non il vizio e così mi sono trovato a fare qualche garetta in salita, dicendo a mia moglie che non erano pericolose ( doppio sic !!!) e che non avevo un impegno fisso.
Ho corso allora in categoria GT3 con una Dino Ferrari stradale che usavo tutti i giorni. Nella GT3 correvano in pratica vetture gran turismo (2 posti) non preparate, credo che oggi si chiami gruppo N. Si potevano bilanciare le bielle, irrigidire le sospensioni, giocare sugli assetti e poco più: in pratica l’auto guadagnava al massimo un 5 – 10% della potenza rispetto alla versione strettamente stradale. Per il resto, si piantava un roll-bar sul pianale - anzi sul pavimento dell’abitacolo - e la macchina era pronta per le gare.
Non vi dico i problemi per avere la fiche di omologazione dalla Ferrari!
Erano anni in cui il Drake non voleva che il nome Ferrari, fosse messo in gioco dai privati, per cui la politica della Casa – incredibile ma vero – era quella di osteggiare i clienti piloti.
D’altro canto gli uomini Fiat che erano ai vertici della Ferrari, di auto capivano meno di niente (erano managers che venivano dai trattori piuttosto che dal materiale ferroviario Fiat) e per loro Ferrari era solo sinonimo di problemi, considerato anche che si era nel periodo dell’austerity.
Che tempi ! E difatti in quegli anni, dopo le mitiche Daytona e Dino, sono entrate in produzione le più brutte e più lente vetture mai prodotte a Maranello…
Le Daytona gruppo 4, che sono state le ultime GT tradizionali a correre prima dell’avvento delle Maranello e compagnia cantando, erano delle auto di una bellezza irripetibile, e pur avendo il grosso handicap di una distribuzione dei pesi non molto felice (anche con il cambio al ponte posteriore, avevano molto peso sull’avantreno ed il motore non era arretrato come poi hanno fatto sulla Maranello) tuttavia si sono fatte onore.
Sono sempre stato dell’idea che se le Dino fossero state sviluppate come meritavano (e c’era tutto il know how della 246 SP per il motore, mentre il telaio era già perfetto) ci sarebbe stato ben poco da vincere per le 911, sia in pista che nei rallies. O quanto meno ci sarebbe stata una lotta straordinaria. E infatti la Stratos, che altro non era se non una Dino con passo accorciato, ha fatto il bello ed il cattivo tempo per anni. Peccato !
Comunque riesco ad avere la fiche e mi ritrovo a combattere, in categoria GT 3 oltre 2000 cc., con la Pantera GTS. Volete che sia sincero? Sia l’auto che il pilota mio principale antagonista mi stavano proprio sullo stomaco ed in certo senso si assomigliavano pure… Una macchinaccia pesante, incongruente, sicuramente difficile da gestire ed alla quale, pur avendo meno della metà della sua cilindrata, la mia Dino dava quasi un secondo a km.
La Pantera: un motore potente, ma lento nel prendere i giri, con un suono cupo, stupidamente minaccioso…Mi dava l’impressione di quegli omoni grossi ed ottusi ai quali puoi ballare intorno, dando loro di tanto in tanto un puffetto sulla guancia.
Ero amico dei piloti che ne hanno guidato occasionalmente le versioni GT4 ufficiali o semi-ufficiali ed anche loro non ne parlavano bene: potenze mostruose, ma difficili da gestire anche sul dritto quando potevi aprire tutto. Certo, quando riuscivi ad aprire non ce n’era per nessuno, ma gli altri intanto dov’erano arrivati quando tu potevi finalmente dare gas ?
La Pantera secondo me è stata una splendida operazione industriale di quel furbone di De Tomaso, ma qui non parliamo più di auto.
Niente a che vedere poi con la raffinatezza della Miura (progettata da quello stesso ing. Dallara che oggi costruisce in pratica tutti i formula americani) ed al cui confronto la Pantera era un ferro da stiro…
La Miura, piacesse o meno all’epoca (era una macchina molto appariscente con dei colori incredibili per i tempi: arancione, verde mela…) era senza dubbio un prototipo messo su strada: in pratica una GT40 sulle strade di tutti i giorni…E quando la Ferrari ha provato a seguirne il percorso col BB (Berlinetta Boxer: boxer perché montava un 12 cilindri con la stessa architettura a sogliola delle F1 di Lauda) la macchina non aveva la stessa tenuta della Miura.
Perché ? Pazzesco: avevano montato il boxer per via del prestigio che gliene derivava dalle vittorie in F1, ma la funzione di un motore piatto è quello di abbassare il baricentro posteriore. Invece sulla BB avevano piazzato il cambio sotto il motore. Ingegnosa soluzione (?) che però, invece di abbassare il baricentro , aveva finito per alzarlo a livelli impossibili da gestire.
Giusto il mio amico F.V. con la sua scuderia, spendendo quattrini a palate e dopo anni di prove ed esperimenti, con una cocciutaggine incredibile, alla fine è riuscito a conseguire qualche risultato.
Ma lui è un testardo romantico…e con tanti quattrini.
E dopo di questo non farò mai più nomi o altri riferimenti personali.
La versione SV della Miura, l’ultima prodotta, era veramente un’auto che sembrava arrivare dalla Luna.
Anche lì è mancata la volontà, o meglio la determinazione a portarla in pista come avrebbe meritato. Avevano preparato una versione Yota (mi sembra che si chiamasse così) per le gare, ma poi hanno abbandonato il progetto.
D’altra parte lo sviluppo di un’auto ha dei costi enormi e se un’auto si vende già bene, è già leader nella propria fascia di mercato, perché spendere quattrini e magari rischiare una figuraccia ? Sono considerazioni razionali che noi con la nostra passione magari non condividiamo, ma che in realtà è bene guidino le scelte manageriali.
Tuttavia, il fatto che la Ferrari non abbia voluto sviluppare le Dino 246…non mi va giù…
Chissà, forse la Fiat non voleva che mettesse in ombra le proprie Dino: non saprei.
Formula Gloria, al quale do un affettuoso “in bocca al lupo” per la sua carriera, ed altri con lui si complimentano con me per il coraggio.
Sarò sincero: non si poteva scegliere! Se avevi voglia di correre le condizioni erano quelle: punto e basta.
Personalmente, non ho mai avuto paura di morire, semmai di rimanere menomato, ma tuttavia se avevi un incidente serio era difficile cavarsela ed uscirne malconcio. Quest’ultima era un’ipotesi difficile da prevedere. In pratica non c’erano mezze misure: se eri fortunato non riportavi neanche un graffio, altrimenti…
Nella mia testa di allora, l’uscita di strada era da evitare soltanto perché ti avrebbe impedito di terminare la gara e non perché potevi farti male o restarci. Certo, quando facevi la ricognizione di un percorso come la Targa, ti rendevi conto dei rischi se fossi uscito di strada, ma poi non ci pensavi più, sostanzialmente perché avevi scelto di correre in auto e le corse erano anche quello.
D’altra parte, diciamocelo francamente, il “mito” del pilota è nato proprio perché connesso a questi grandi rischi. La percezione all’interno della categoria era quella di far parte di una sorta di élite di cavalieri, senza macchia (?) e senza paura per cui l’orgoglio di far parte di questo gruppo ti faceva tutto sommato superare quei residui timori che ancora potevi portare nel tuo cuore.
La paura quindi, se mai si fosse affacciata, era un sentimento da reprimere e basta.
Per lo meno questo era quello che sentivo io.
Poi la competitività, la voglia di emergere e di vincere, l’egocentrismo e -diciamolo pure – il protagonismo ed il narcisismo, prendevano il sopravvento su ogni residuo barlume di raziocinio, e così impostavi la seconda di Lesmo (allora assolutamente cieca) sicuro di aver preso la traiettoria giusta con l’unica preoccupazione di tenere il motore con quei cento giri in più che poi ti saresti portato per tutto il rettilineo del Serraglio. Non pensavi ad altro che a questo, tralasciando che all’uscita della curva (se ben impostata) ti saresti trovato a pochi centimetri dall’erba e poi da una rete che, se invece avevi impostato male, ti avrebbe catapultato non ancora in pista, ma in alto sugli alberi…Chissà poi perché in alto?
Ho perso degli amici, ma le mie riflessioni ( a parte ovviamente il dolore) erano che loro erano stati “sfortunati”, o avevano commesso degli errori che io – INVECE – non avrei commesso, perché (ecco ancora l’egocentrismo) ero più bravo di loro,o meno incosciente o meno sfortunato…
Scusatemi la presunzione, ma i pensieri erano questi !
La verità vera è che sono stato estremamente fortunato: ho commesso pochissimi errori irreparabili e quando si sono verificati, c’è stato un Angelo che mi ha tenuto la mano sulla testa. Io non sono religioso, ma credetemi è stato proprio così, perché non si può credere supinamente e stupidamente soltanto alla fortuna.
Il mio timore razionale, per così dire, era riposto nella defaillance tecnica piuttosto che in un mio errore.
Una volta, per esempio ho perso i freni: allora non c’erano doppi circuiti frenanti, per cui si è semplicemente rotto per stress il tubo dell’olio in pressione, e quando sono andato a frenare il pedale è andato giù a fondo corsa senza nessuna resistenza: tremendo!
Per “fortuna” ero in prova ed avevo appena deciso di rientrare ai boxes, per cui avevo rallentato di molto l’andatura e sono andato sul prato dopo aver rallentato l’auto con vigorosi colpi di volante a destra e a sinistra. Ma sarebbe potuto capitare in corsa, o ad una staccata di quelle vere…
Da allora, avevo preso l’abitudine di toccare di tanto in tanto tanto il freno, per sentire se il circuito era in pressione
Un’altra volta mi è scoppiata improvvisamente la gomma in appoggio appoggio per via di un errore nel montaggio: testa coda violentissimo senza alcuna possibilità di correggere l’auto. E’ successo a Vallelunga nella seconda curva di raccordo tra il tornantino e la curva Roma: curva piuttosto lenta da seconda piena o terza. Se fosse capitato al Curvone, venivano a raccogliermi a Viterbo !!!
E via di questo passo con altri episodi che mi hanno convinto di quanto scrivevo prima.
Ancora: un paio di volte ho perso la ruota anteriore dell’Elan, una volta dell’Elite; poi, ancora con un’Elan, dopo un urto si è spezzato il triangolo superiore della sospensione posteriore sinistra per cui il mozzo si reggeva soltanto sul triangolo inferiore: praticamente la ruota staccata ed io non me n’ero accorto! Dopo aver urtato, ho dato un paio di sterzate per controllare che fosse tutto a posto, ma leggere perché la pista era bagnata, e mi è sembrato che sì…tutto era in ordine.
La curva successiva era sinistra, quindi gomma destra in appoggio: sono entrato prudentemente e la macchina rispondeva bene. Mi sono a detto: ok, puoi riprendere. La curva dopo era a sinistra (quindi posteriore destra in appoggio, quella che aveva subito l’urto), sono entrato deciso in terza piena o quasi e sono partito nel più lungo testa coda della mia vita: la riprendevo e tornava a girarsi, in avanti, indietro, poi ancora un giro, poi sull’erba, rientrava in pista e poi ancora via sul prato e così avrò fatto così 150 metri …e senza mai urtare da nessuna parte e senza essere urtato da nessuno. Questo ancora più incredibile, perché nella sua “danza” in mezzo alla pista la macchina aveva delle reazioni imprevedibili e per chi mi seguiva era impossibile capire da che parte sarebbe andata.
Un’altra volta, determinato di riprendermi il primo posto che avevo perso in partenza per una mia indecisione, ho tirato una staccatona alla prima curva e mi son girato come un cretino restando di traverso sulla pista con tutte le auto che mi sfioravano…Be’ mentre mi vedevo tutti quei musi che mi puntavano e poi mi sfilavano per puro miracolo…mi dicevo soltanto: ######, ######, eccone un’altra che ti passa avanti…
Non c’erano le gabbie che ci sono adesso: sul fianco, tra te e le altre auto, c’erano soltanto pochi millimetri di alluminio o vetroresina, per cui se un’altra auto ti entrava dentro…usciva tranquillamente dall’altra parte con … un grosso moscerino sul muso !
Ma a proposito di Lotus: chi di voi ha guidato la Lotus Elite su GTL ?
Su di un circuito non velocissimo, l’Elite – con i suoi 1300 cc. scarsi – è capace di dar la paga ad un’ E Type, o quanto meno di darle molto fastidio sino stressarne il pilota ed indurlo ad errore…Sarebbe un po’ come dire della vespa che infastidisce talmente tanto un elefante da fargli sbattere il muso contro un albero ed atterrarlo…
Conoscete la storia di questa macchina ? E’ forse la macchina più straordinariamente incredibile che abbia mai guidato !!! In pratica una formula a due posti: provatela, vedrete com’è affidabile, sincera, facile da farla scivolare via su 4 ruote, leggera e divertente…
Colin Chapman, il patron della Lotus, è stato veramente un genio, l’espressione massima di quella scuola inglese che allora si contrapponeva alla scuola italiana, per così dire. Da un parte si privilegiavano i telai anche per mancanza di motori validi, e dall’altra appunto i motori. I telai delle Ferrari erano ferraglia in confronto a quelli inglesi, mentre invece i motori erano molto più raffinati dei loro.
Pensate che il Coventry Climax montato sulla Elite, ed anche su altre Lotus, altro non era che il motore di una pompa antincendio usata dagli inglesi durante la seconda guerra mondiale: era costruito il lega di alluminio perché fosse leggero e facilmente brandeggiabile e proprio questa caratteristica attrasse Chapman che decise di utilzzarlo sulle sue vetture, in una esasperata ricerca della agilità dell’auto piuttosto che della violenza bruta del motore. Poi la leggerezza si rifletteva in una estrema delicatezza dell’auto e, diciamolo pure, in una fragilità telaistica che purtroppo ha fatto diverse vittime, tra cui Clark e Rindt.
Ma delle Lotus magari parleremo un’altra volta.
Salutoni a tutti.
Sigfried....."
Posted: Wed Nov 15, 2006 8:50 am Post subject:
Parte Quarta

E allora ragazzi, francamente non pensavo che i miei ricordi potessero avere tanto successo e scusatemi se ho tardato un po’ a scrivere ancora, ma, ovviamente lo faccio nel tempo libero ed alla fin fine poi ne rimane poco.. Certo, è piuttosto scontato pensare che gli anni della propria giovinezza siano stati straordinari in assoluto, tuttavia ritengo che quegli anni ’50 e ’60 siano stati oggettivamente molto belli per lo sport che amiamo, anche se costellati da tanti episodi luttuosi. Personalmente ritengo che le auto fossero più belle, con quelle linee sinuose battute sull’alluminio, con mille rivetti, prese e sfoghi d’aria asimmetrici da un lato all’altro…Se voi prendete un’auto sportiva prodotta anche in centinaia di esemplari come la Giulietta SZ, sarà difficile che troviate due esattamente uguali l’uno all’altro. ( a proposito: ma perché in GTL non ci sono Alfa ?) Tempo fa ho avuto occasione di provare (in modo cattivo) la nuova M5: impressionante per accelerazione, frenata e tenuta, però così tanto “asettica” da essere pericolosa, perché non riporta la sensazione della velocità. Per avere poi e finalmente la percezione che la macchina stia facendo quello che vuoi tu e quando vuoi tu, devi escludere ogni assistenza e portarla al limite: soltanto allora non ti sembrerà più che dentro il cofano ci sia più un “giapponesino” che sta guidando per te. Però le auto di oggi partono al primo colpo, hanno tergicristalli che funzionano perfettamente ( tra chi mi legge qualcuno ricorderà la fatica per disappannare i vetri !!! ), riprendono da mille giri senza esitazioni, e via di questo passo…Insomma, ogni periodo storico ha i suoi lati positivi e quelli negativi… Per evitare di cadere in luoghi comuni, riprendo il discorso della Elite. Si era agli inizi degli anni ’60 e Chapman decise di mettere in vendita un’auto straordinaria: per cominciare era interamente in vetroresina, tranne un telaietto anteriore in ferro annegato nella “plastica”; poi: 2 posti, 4 ruote indipendenti, freni a disco, e questo leggerissimo motore Coventry Climax di 1216 cc. (se non ricordo male). La versione S poi, montava un cambio ZF ed autobloccante. All’epoca era eccezionalmente innovativa, perché sicuramente nessuna vettura stradale presentava tante novità tutte insieme ed era così raffinata sotto l’aspetto tecnologico e sportivo. La potenza di questo “motorino” era relativa, forse arrivava a sviluppare, nelle versioni più spinte, 110 hp. Comunque, l’auto era in pratica una formula a due posti ed appena scese in pista non ce ne fu più per nessuno. La Giulietta SZ era le sua diretta antagonista: aveva almeno 20 hp in più rispetto all’Elite, ma montava ancora freni a tamburo; anche quando finalmente misero i dischi all’avantreno, c’era sempre l’handicap del peso e di quel un ponte posteriore rigido che ha caratterizzato, nel bene e nel male, tutta la produzione Alfa sin quasi agli anni ’80. L’Elite, che aveva un costo esorbitante per l’epoca, faceva il bello e il cattivo tempo in gara e si permetteva anche di andare a…“pizzicare il sedere” a quelle inavvicinabili signore che erano le E Type e le Ferrari 250 SWB; se pioveva poi, si prendeva anche qualche libertà in più…battendole. Aveva per contro un’estrema fragilità, dovuta in parte all’esasperata ricerca della leggerezza (che è stata un po’ la …scimmia sulla spalla di Chapman), ed anche il problema dell’accoppiamento di materiali troppo diversi tra loro per resistenza e flessibilità: non era improbabile che una sospensione restasse attaccata al cordolo, mentre l’auto proseguiva oltre… E sapete chi aveva progettato l’Elite ? Quel Frank Costin progettista della Vanwall F1 e fratello di Mike Costin che insieme a Duckworth, avrebbe progettato in seguito il più famoso motore formula 1 dei nostri tempi: il Cosworth. Chapman, che è rimasto nella storia dell’automobilismo sportivo soprattutto perché inventore della wing car e del doppio telaio, aveva già intuito il ruolo aerodinamico della carrozzeria, ma non soltanto ai fini della penetrazione, ma anche ai fini della portanza, Utilizzava quindi l’aerodinamica per alleggerire ulteriormente la vettura, migliorare il rotolamento dei pneumatici e sviluppare quindi una maggiore velocità. Questa è una cosa della quale ho sentito parlare quasi mai, forse perché pochi la conoscono. Comunque sia, se voi guardate una foto delle Lotus F1 1500 in piena velocità, (ma comunque un po’ di tutte le F1 di quegli anni) noterete che le sospensioni sono del tutto scariche e la carrozzeria sta sulla ciclistica come un ragno sulle zampe. Questo accadeva ancora di più con le Lotus sport dell’epoca, che avevano la scocca inferiore interamente carenata, perché potesse far “galleggiare” l’auto sull’aria. Quando a me è capitato per la prima volta di guidare una Lotus biposto ( motore anteriore), sono arrivato al Curvone di Monza con una sensazione di leggerezza al volante talmente accentuata che ho avuto quasi l’impressione di essere rimasto senza sterzo. Lì per lì ho pensato che fosse per le gomme fredde. Poi il giro successivo ancora; e intanto cominciavo a constatare che il sovrasterzo si manifestava di più alle andature medio alte. Dipendeva dalla velocità ? Ero perplesso. Quando nel comportamento dell’auto qualcosa non mi convinceva, avevo l’abitudine di farne a memoria un check “fotografico”, come se stessi controllando dall’esterno che tutto fosse in ordine: anteriore dex, fianco, posteriore dex, coda, posteriore sin, fianco, anteriore dex, attacchi sospensioni… A questo punto nella mia memoria è comparsa la carenatura inferiore d’alluminio: ho intuito subito a cosa serviva e come la vettura sollevasse il muso, man mano che la velocità aumentava. Diavolo di un Chapman ! Negli anni successivi, in F1 quasi tutti avevano i Cosworth, i telai tutto sommato si somigliavano abbastanza: il busillis tecnico era inventarsi qualcosa che migliorasse l’aderenza in curva, superando le prescrizioni sulle dimensioni degli alettoni. Per Chapman, che aveva già inventato le vetture ad “ala portante”, è stato un gioco ( o quasi) inventarsi quelle ad “ala deportante” e sono quindi nate le macchine ad effetto suolo. Gli “altri” hanno impiegato un anno per capire ed un altro anno per copiare… Il mio preparatore – mitico personaggio romano che però non era il vecchio “sor Gino”De Sanctis – mi raccontava che una volta, al circuito di Caracalla a Roma, si presentò un inglese con una strana Lotus biposto: in prova non fece granché e tutte le attenzioni erano sulle solite Maserati, Ferrari, Stanguellini ecc. Pronti…via e le auto scompaiono dietro la prima curva. Passa qualche minuto e si vede sbucare in fondo al rettilineo delle tribune la Lotus. Dietro il vuoto ! Si pensa ad un incidente che ha eliminato i primi: i meccanici, il pubblico, tutti si guardano l’un l’altro ansiosi e preoccupati, quand’ecco comparire tutto il gruppo… Insomma, già al primo giro quella “ranocchietta” verde aveva recuperato le posizioni e dato una bella manciata di secondi a tutti ! I preparatori…Il mio è stato per me, non voglio esagerare dicendo“un padre”, ma uno …“zio burbero ed affettuoso” , quello sì, senz’altro. Ed anche dopo, è sempre stato un riferimento, una persona della quale fidarmi ed alla quale chiedere un consiglio. Non posso dire come lo chiamassero perché già questo sarebbe sufficiente per identificarlo (ho già detto che non avrei fatto più riferimenti personali ), ma di lui si diceva che potesse svitare il gallettone di una ruota senza bisogno della mazza per allentarlo ! Una volta, in schieramento prima della partenza, si è rotto il manicotto del radiatore e lui, con l’acqua ad una temperatura di 70 – 80 gradi, me lo ha cambiato a mani nude ! A fine gara, gli chiesi se s’era fatto male (aveva certi calli che veramente la mano era dura come il ferro) e lui si schermendosi mi rispose, sento ancora le sue parole: “No, però nun te ce devi abituà’! Ragazzi, sono io veramente che ringrazio voi perché mi permettete di andare indietro nella mia memoria, sino ad episodi che credevo di avere dimenticato… Comunque i Coventry Climax, da motori per pompe antincendio, diventarono motori da F1 che equipaggiavano la Lotus, ed anche la Cooper. I piloti di oggi e quelli di ieri: vorrei parlarne più diffusamente, ma in linea generale non credo che noi fossimo migliori, come qualcuno ha scritto Eravamo diversi, perché i tempi erano diversi: identici i traguardi, ma diverse le metodologie, diversi gli strumenti e diversi i modelli di riferimento. E vi dirò di più: io penso che se voi mettete un ragazzo di oggi, un buon pilota, su una delle macchine che ho pilotato io, credo che - se è bravo - ci mette niente a fare i miei stessi tempi. Tutt’al più, scendendo, potrà dire che eravamo un po’ matti. Ma se io montassi su di una macchina di oggi, farei ben fatica ad adattarmi all’elettronica e ci metterei almeno un mesetto per imparare a cosa servono tutti quei pulsanti e quei manettini sul volante. E comunque, una cosa che non accheterei mai, è quella di essere “spiato”, analizzato dalla telemetria. E’ un po’ come se voi, nel vostro lavoro, alla vostra scrivania, foste costantemente sotto l’osservazione di una telecamera, con la consapevolezza che ogni vostra mossa verrà osservata, analizzata, commentata e discussa. A me nessuno ha mai detto “devi essere più veloce” e non perché lo fossi già di mio, ma perché mi hanno sempre rispettato…e se qualcuno me lo avesse detto gli avrei sbattuto il casco in testa, e detto: “vai tu e fammi vedere come fai !” Neanche Ferrari credo l’abbia mai detto in maniera espliciti, e sì che era uno con un certo pelo nello stomaco: usava metodologie più sottili, ma questa è un’altra storia. ( Io non ho una gran simpatia per Enzo Ferrari…) Oggi un pilota professionista di livello nazionale, porta a casa cifre che il buon Jim Clark non avrebbe immaginato di guadagnare, ma tuttavia, anche a causa delle telemetria, è completamente nelle mani del suo team manager: deve fare quello che gli si dice e nel modo in cui gli si dice. Non può accampare scuse, inventare una giustificazione: anche se ha fatto un ruttino, tutto viene riportato suoi tabulati. Ed io vorrei qui spezzare una lancia a favore dei piloti di oggi: siamo sicuri che certi comportamenti antisportivi non siano indotti, suggeriti se non addirittura imposti da chi sta ai boxes con cuffie e microfono? Se prendete un libro di Autosprint su Schumacher uscito proprio la settimana scorsa, a proposito del GP di Spa del ‘98 , leggerete che quando Coulthard “anticipò un pelino” la staccata e buttò fuori Schumi, riceveva via radio dai boxes la posizione della Ferrari che rimontava e che lui non poteva vedere per via della nube d’acqua che sollevava. Una sorta di conto alla rovescia: è a dieci secondi de te, a cinque, è dietro di te…E pensate che tutto questo conteggio fosse finalizzato a non intralciare Schumacher ? E pensate pure che Coulthard abbia volutamente innescato un incidente nel quale comunque avrebbe potuto riportare qualche danno, se a questo non gli fosse stato “suggerito” da quel gentiluomo di Ron Dennis, o chi per lui. In ogni caso, doloso o colposo che fosse quell’incidente, a me sembra che questi siano gli esempi, i modelli di riferimento che oggi ispirano i giovani piloti. L’anno successivo Coulthard fu confermato in Mac Laren perché con il suo giochetto aveva consentito ad Hakkinen di vincere il mondiale, o faccio troppa dietrologia? Comunque un giovane pilota di oggi capisce subito che se vuole fare carriera, se vuole realizzare il proprio sogno, deve saper essere un “buon professionista”, con tutto quello che questo parolone comporta. Quindi anche -se non soprattutto - attaccare l’asino dove vuole il padrone. Punto e basta. Ed anche se non avesse l’acume di capire come e perché certe cose accadono, vede i suoi idoli tenere certi comportamenti (vogliamo ricordare certe mosse di Senna, di Prost, di Schumi?) ed impara che si può vincere ANCHE sbattendo proprio il proprio avversario. Quando girano pacchi di miliardi, è difficile parlare di sport, di valori umani, di sana competizione e via dicendo: queste cose non esistono più, annichilite da interessi che prescindono dal valore dell’uomo. Secondo me, in Italia l’ambiente ha cominciato a guastarsi sul finire degli anni ’60, quando cominciarono a spuntare consistenti premi in danaro nella formula 3 nazionale. Sto esprimendo soltanto opinioni personali, ma la mia impressione è che si perdette quella correttezza e quel rispetto reciproco che, salve poche eccezioni, aveva sempre caratterizzato i rapporti tra piloti. In pista e fuori. Tutto sfociò poi nel terribile incidente di Caserta, nel quale persero la vita Geki Russo, “Tiger”, Perdomi ed un altro pilota inglese. C’era sete di danaro da parte di molti, fossero piloti o preparatori, e soprattutto da parte di chi firmava pacchi di cambiali per correre,. Si formavano grupponi di vetture all’interno dei quali accadeva di tutto… sino alla staccata, ed ogni volta era una scommessa su chi avrebbe staccato per ultimo. Era assolutamente prevedibile che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa di grave…ed infatti avvenne. E poi non finì neanche lì. Io avevo provato ad avvicinarmi alle ruote scoperte, ma tutto sommato con scarso interesse. Ed anche se l’esperienza di guida di una formula è esaltante e sicuramente molto formativa perché insegna a guidare puliti, a mettere le ruote sempre nel punto giusto, a sfruttare la forza centrifuga per essere più veloci, a me piacevano di più le sport e le GT. Poi, quando vidi ad Imola un terrificante incidente provocato esclusivamente dalla stupidità umana, decisi di limitare la mia pratica alle prove che avevo già fatto: in pista con quei pazzi e con le ruote scoperte non ci sarei mani andato ! Mi piaceva guidare una formula, ma senza troppa confusione intorno.. Insomma, non era per me: non avevo abbastanza coraggio o incoscienza ! Comunque, in quella “gabbia di matti” c’erano nomi che poi sarebbero diventati famosi, e questo bisogna dirlo per correttezza. E a proposito di famosi: ho avuto la fortuna di conoscere, sì, insomma …di scambiare due parole con personaggi come Jo Siffert, Joackim Bonnier, Graham Hill, il vecchio “Black Jack” Brabham, con il quale passai una buona mezz’ora a parlare in un piccolo bar tra Montecarlo e Nizza. Era credo il ’70 ed allora, come oggi, le prove del GP di Monaco cominciavano il giovedì. La sera di giovedì, andando da Montecarlo a Nizza, mi fermo in un piccolo bar per comprare le sigarette e chi trovo lì, appoggiato al bancone del bar…niente po’ po’ di meno che Jack Brabham…personalmente lui di persona !!! Incredibile, lo guardo e lui mi fa quasi un cenno con la testa, come per dire…”sì, sono proprio io”; gli chiedo se posso scambiare due parole con lui e lui mi indica lo sgabello vicino. Incredulo e sbalordito, lascio lì il mio pacchetto di sigarette (come a indicare “posto preso” ) e mi catapulto fuori, chiudo la macchina e ritorno dentro. Era lì da solo che beveva una birra e, come ho sentito poi, non dormiva neanche a Montecarlo, ma in un albergo proprio in quel paesino…Ovviamente gli chiedo delle impressioni, della sua macchina (era stato il primo pilota costruttore) e mi dice che le più potenti erano Matra e Ferrari, ma Montecarlo era una gara lunga, che il suo 8 cilindri Cosworth aveva più coppia in basso rispetto ai 12 cilindri Matra e Ferrari, che la sua macchina era robusta quanto lui (strizzandomi l’occhio); gli dico che anche io correvo in auto e, poi incredibilmente, gli ho chiesto se sua moglie lo seguisse nelle gare. Da lì ha cominciato a parlarmi della sua famiglia che restava fuori dal suo lavoro, che la moglie viveva in Inghilterra, e non vedevano l’ora di tornare in Australia. Mi ha chiesto di me…Insomma, la conversazione di due normalissime persone che non si conoscono e incontrandosi in un pub, scambiano due parole. Poi la domenica, prese la testa della gara e la perdette arrivando lungo all’ultima curva, beffato sul filo di lana dall’emergente Jochen Rindt. Il direttore di gara – il vecchio pilota monegasco Louis Chiron - che si aspettava di veder passare per primo Brabham, quando vide comparire la Lotus 72 rosso-oro di Rindt (altra macchina straordinaria di Chapman), rimase sbalordito e non gli dette neanche bandiera ! Brabham, un pilota che già allora aveva vinto i suoi tre titoli mondiali, ed era alla mano come il vostro vicino di pianerottolo. Non solo: mi ha offerto anche la birra! Quindi, ritornando velocemente al discorso dei modelli di riferimento, voi pensate che io avendo constatato l’autentica semplicità di quell’uomo, avrei poi potuto tirarmela, soltanto perché avevo addosso una tuta Dunlop ed una giacca a vento con il logo dello sponsor ? Avrei voluto adesso raccontarvi adesso di un episodio riguardante su Von Trips, ma lo farò la prossima volta per non essere adesso troppo prolisso. Per rispondere ad una domanda che mi è stata fatta, voglio aggiungere che non mai corso al Nürburgring e neanche al vecchio Mugello. Saremmo dovuti andare un anno a fare il Mugello (altra gara straordinaria come la Targa) ma poi non se ne fece più nulla per una sorta di gentlemen’s agreement con un’altra squadra. Comunque ne ho tanto sentito parlare: il Mugello era in pratica come la Targa, ma con un fondo stradale migliore; del Nürburgring so che era velocissimo e difficile e che la carburazione doveva essere molto ricca per via dell’ossigeno rilasciato dagli alberi della foresta in mezzo alla quale si sviluppava il circuito. Per Robinson. Lotus Elise: grande macchina in linea con la filosofia di Chapman e ne ho avuta in uso una stradale per qualche tempo. Poco potente, ma leggerissima: pronta nelle reazioni come un kart e sensibile alle regolazioni come una sport. Molto divertente, però in campana: con quel passo così corto in rapporto alla carreggiata, quando va via lo fa in modo violento e quasi senza preavviso, quindi su strada è meglio averla un po’ sovrasterzante, se posso permettermi di dare un consiglio. Comunque ecco una mia foto in gara con l’Elise. Agli altri che mi hanno fatto delle domande, risponderò la prossima volta. Scusatemi. A presto e grazie ancora per tutte le vostre lusinghiere considerazioni nei miei riguardi Sigfried.
Posted: Tue Nov 21, 2006 9:25 am Post subject:
Parte Quinta:

Cari ragazzi, vi ringrazio ancora per la vostra simpatica e direi affettuosa partecipazione a quello che ho raccontato: purtroppo non ho molto tempo a disposizione e così finisco col sottrarlo… a GPL che in pratica non ho più avviato !
Vorrei tornare la prossima volta ai temi che mi – e vi – sono cari. Per il momento vorrei brevemente ringraziare “Elvin” per il link ad un filmato sul percorso della Targa: QUI
Rivedere quel percorso mi ha dato delle emozioni che non riesco ad esprimere, talmente sono stati forti.
Dal min 1 al 2 (del filmato) si vede quella lunga discesa, dopo Cerda e sino al ponte di Scillato; manca purtroppo quel tratto misto-veloce che a me piaceva tanto; poi dal min. 2,30’ la lunga discesa da Collesano a Campofelice, poi ancora il rettilineo di Buonfornello e al min. 4,16 mi è parso di riconoscere quella curva che non finiva mai e nella quale si doveva ritardare l’inserimento sino all’inverosimile. Sicuramente a Palermo ci sarà qualcuno in possesso di un filmato “on board” del percorso, da cui trarre una ricostruzione del circuito per GTL.
A Palermo c’erano piloti straordinari, oltre ovviamente al “Preside Volante” che è nella storia dell’automobilismo italiano ed a pieno titolo nella leggenda della Targa. C’era una splendida scuderia, la “Pegaso”, che schierava magnifiche vetture e velocissimi piloti, dei quali non faccio i nomi, ma di cui ricordo il tratto signorile e la gentilezza di modi, ed anche per la loro indimenticabile ospitalità.
E sempre a proposito della Targa, ricordo di quella volta che – durante le prove - ho trovato lungo il percorso Brian Redman fermo con la sua Porsche “muletto” (era quell’incredibile 908 “bicicletta” ) e mi son fermato anch’io pensando che potesse aver bisogno di qualcosa: si era appena tolto il casco ed era ovviamente molto sudato: mentre stavamo parlando, si sfila le cinture, apre l’ignifuga e tira fuori dalla tuta…una sfilatino di pane con il salame ( che non vi dico com’era ridotto per via della pressione delle cinture e del sudore che aveva assorbito ) e fa per spezzarlo per offrimene pezzo… offerta che, pur apprezzando, ho ovviamente declinato…
Ragazzi, vado di fretta…
Mi spiace, forse ho fatto una piccola gaffe con “BI555”parlando “non bene” della Pantera che a lui deve essere molto cara. Ecco chi potrebbe veramente raccontare di quei tempi in cui le macchine, specie quelle “da corsa” si facevano a colpi di martello, modificandole lì per lì, soprattutto per aprire prese d’aria e feritoie di sfogo. I battilastra erano veramente degli artisti, degli scultori dell’alluminio, di cui temo si sia persa la scuola.
Credo anch’io che i clienti delle Miura si lamentassero della tenuta: probabilmente perché erano sottosterzanti come un prototipo, o sbaglio ? Raccontaci !!!
Scusatemi se questa volta son stato così breve, ma mi riprometto di tornare presto tra di voi.
Salutoni.
Sigfried
Posted: Thu Dec 14, 2006 11:18 am Post subject:
Parte Sesta

Vi prego tutti di volermi scusare per non essermi più fatto sentire su questo simpatico “forum”, ma ho avuto delle gravi ragioni che vi illustrerò dopo, al momento del commiato.
Su Ferrari, vorrei soltanto dire che – al di là della considerazione per il personaggio poliedrico: grande industriale, grande fabulatore e grande organizzatore – non ho avuto molta simpatia per lui e questo perché aveva l’abitudine ( a dire il vero, poi consolidatasi negli anni anche per altri team managers ) di mettere sottilmente i suoi piloti l’uno contro l’altro, e questo ha causato la morte di alcuni di loro.
Ecco, in estrema sintesi questa è la mia opinione.
Viceversa ho una grande stima per Piero Lardi Ferrari: ottimo imprenditore, grande appassionato, un uomo colto, sensibile e di grande generosità, cresciuto nell’ombra di un padre imponente (non soltanto nell’aspetto fisico!) e di uno scomodo…fantasma: il fratellastro Dino, la cui figura gli veniva continuamente richiamata, quando ragazzo cominciò a frequentare la fabbrica paterna.
Qualcuno mi chiedeva come ho iniziato a correre.
E’ stato negli anni ’60, con una Cooper “S “, premio per mia la “maturità”. La scelta, - operata con la complicità del concessionario - fu motivata dalla maggior ... sicurezza che questo modello offriva, rispetto agli altri, per via dei freni a disco anteriori… D’altra parte, mio padre non guidava neanche e quindi non aveva nessuna competenza a riguardo, sicché il gioco fu abbastanza semplice. Ancora la ricerca di una maggior sicurezza ( ! ) legittimò agli occhi dei miei genitori l’acquisto dall’Inghilterra di un kit di modifiche all’auto : in realtà si trattava di un completo kit di preparazione “gruppo 2” della Speedwheels, che conteneva cammes, carburatori, collettori e quant’altro, sino alle bellissime ruote in lega “Mini Lite” ed ai codolini passaruota.
Adesso non ricordo con esattezza la potenza che alla fine venne fuori, ma credo si fosse intorno ai 120 sae. Comunque era veramente una “bestia”, difficile da tenere dritta in accelerazione, anche per via di uno sterzo di diametro molto piccolo che avevo fatto montare. Io francamente non avevo l’esperienza per maneggiare tanta potenza con così poco peso; per di più il passo corto e la carreggiata allargata, rendevano la macchina molto nervosa nelle reazioni; l’autobloccante che “tirava” molto violentemente la macchina nella direzione in cui le ruote erano orientate…complicava ulteriormente le cose. Inoltre, il capofficina della concessionaria che aveva montato il “pacchetto” non aveva la competenza ( ed io meno che mai !) per fare delle indispensabili regolazioni…sicché devo dirmi assolutamente fortunato che non sia capitato nulla, né a me e neanche a quei miei amici che con un entusiasmo pari all’incoscienza, mi accompagnavano nella ricerca di macchine più grosse da…castigare !
Comunque, dopo un iniziale ed inconfessato sgomento…imparai in qualche modo a domare questa “bestia” che aveva molti capricci ed innumerevoli scomodità pratiche, perché era veramente una vettura da corsa che girava sulle strade di tutti i giorni, e questa non era propriamente la sua vocazione. Per esempio, col freddo il motorino d’avviamento non ce la faceva a vincere la compressione dei cilindri e la viscosità dell’olio, per cui non c’era altro da fare se non spingere, e tanto…Inoltre era bassissima e quindi su certe strade (quelle idonee ai tanto sospirati intrattenimenti con la ragazza) non si poteva passare se non a rischio di urtare la coppa dell’olio; poi, quando e se si riusciva ad arrivare in un posticino tranquillo, con il rumore dello scarico disturbava tutti quelli che, già in parcheggio, avrebbero voluto starsene un po’ tranquilli. Credo che pochi abbiano rimediato tanti “vaffa” come me in quel periodo…
Oggi, sarebbe stata immediatamente sequestrata, invece allora c’era da parte degli agenti che mi fermavano, curiosità e paternalismo, per cui poi tutto si esauriva in una multa (che allora era solo di mille lirette) in genere per guida pericolosa o scarico rumoroso.
C’è da aggiungere che all’epoca di Mini Cooper ce n’erano poche in giro (non esisteva ancora la versione italiana poi prodotta dall’Innocenti) e vederne poi una “da corsa”, generava molta curiosità.
Il problema era realizzare il sogno di correre e per il rilascio del patentino, occorreva: la patente da almeno un anno e, per i minori (meno di 21 anni) l’autorizzazione dell’esercente la patria potestà. Come fare? M’inventai allora che per frequentare un corso di vela era necessaria l’autorizzazione paterna, e trascinai mio padre dal notaio per la relativa autorizzazione: “autorizzo mio figlio……ad esercitare sports nautici”. Con la mai abbastanza lodata scolorina, cancellai “nautici”, ci scrissi sopra “automobilistici” e per fortuna alla CSAI (ma credo che fossero abituati ad escamotages del genere!) la pratica passò ed ebbi in mano il “patentino”.
Il debutto fu in una salita in Umbria: c’era un misto veloce che si snodava a fianco di un torrente prima che il percorso cominciasse a salire e, per puro caso, mi trovai con il mio unico rapporto al ponte che sembrava studiato per quel tratto: dove gli altri staccavano io (come mi dissero poi) continuavo ad andare a tavoletta, per cui fui particolarmente veloce. Morale della favola, vinsi la mia categoria: gruppo 2 sino a 1300 cc., con delle normali Kleber, laddove molti montavano le Dunlop Racing.
Dopo il parco chiuso, mi avvicinò un meccanico di Bologna che era famoso per gli assetti e cominciò a girare intorno alla macchina, spingerla in giù appoggiandocisi sopra, a scuoterla e mi chiese chi mi aveva fatto l’assetto…
Devo dire che ero estremamente intimorito da tutto: mi sembravano tutti “grandi”, bravissimi, esperti, per cui pensai di sparargli un nome qualsiasi, però non ne fui capace per cui dissi semplicemente la verità e gli raccontai della scatola Speedweel. Per farla breve, mi disse che l’aveva capito perché la regolazione degli ammortizzatori non era uniforme…e questa cosa lì per lì gli era sembrata una diavoleria fatta apposta…”mo come a Indianapoliscc”…Per farla breve, ci facemmo reciprocamente simpatia per cui portai la macchina da lui per l’assetto, anche perché mi aveva rassicurato che “per pagare e morire …c’è sempre tempo”.
Vorrei sapere quanti meccanici di oggi direbbero una frase del genere !
A me sembra che allora fosse la passione, sempre, a motivare ogni cosa.
Insomma, tutto nacque poi così, perché questo meccanico (che aveva una bella azienda) mi prese sotto la sua “protezione” e cominciò ad insegnarmi tante cose, non ultimo come fronteggiare le intimidazioni verbali di quei miei avversari dei quali poi sarei diventato amicissimo, ma che in quei primi tempi si “divertivano” a farmene di tutti i colori, perché ero nuovo dell’ambiente, sprovveduto (diciamolo pure), ma soprattutto perché, quando non vincevo, ero comunque lì nei paraggi…
La maggior parte di noi, andava a correre con la stessa macchina che usava tutti i giorni o quasi e solo qualcuno arrivava con la macchina sul carrello…
I carrelli: altra epopea ! Eravamo veramente degli sconsiderati: in genere le macchine che trainavano erano delle “familiari” (la parola “station wagon” era di là da venire) di terza o quarta mano, con motori spompati, senza freni e con ammortizzatori inesistenti, per cui si camminava “sulle molle” con queste macchine tremendamente “sedute” sull’asse posteriore e, quando iniziavano ad ondeggiare, ci voleva tutta la nostra abilità per riuscire a riprenderle. E siccome, come dicevo eravamo degli sconsiderati, se ci s’incontrava durante un trasferimento verso una gara (il che capitava spesso), trovavamo il modo d’ingarellarci anche con i carrelli attaccati dietro.
Per l’assetto della macchina trainante, era fondamentale “bilanciare” bene la macchina sul carrello, ma poi le corde che la tenevano finivano con l’allentarsi per cui cominciava a muoversi e siccome…boia chi molla, si continuava a gareggiare con la macchina al traino che pericolosamente faceva avanti e indietro sul carrello, e non è capitato una volta soltanto (per fortuna a me mai!) che venisse giù!
Il contesto nel quale la mia esperienza agonistica si è sviluppata era molto cameratesco, ed allegro: al di là dell’impegno che pure mettevamo e dei risultati che molti di noi conseguivano, non ci prendevamo molto sul serio, piuttosto ci si prendeva molto in giro e quei pochi che un po’ “se la tiravano” non facevano parte del nostro gruppo. Poi siamo cresciuti: qualcuno ha smesso e noi che siamo rimasti nell’ambiente - io non sempre in modo continuativo - siamo diventati dei “senatori”: rispettati perché rispettavamo delle regole di correttezza, e temuti perché facevamo un fronte unito contro chi queste regole non le rispettava. Questo è durato un po’. In avanti, i tempi sono radicalmente cambiati ed il nostro modo di pensare è diventato un po’ démodé: la società si trasformava, la presenza degli sponsors diventava sempre più importante e mentre una volta si “limitavano” a chiederti fatture per 10, 50 volte le cifre che materialmente ti davano, poi hanno preteso d’imporre un pilota piuttosto di un altro.
I direttori sportivi delle scuderie, che prima erano soltanto dei grandi appassionati che in quel ruolo esprimevano la loro passione per le gare, sono diventati dei managers. Non voglio mica dire che tutto questo sia sbagliato, soltanto che non era più quel mondo nel quale io mi riconoscevo.
Vi ho raccontato del mio incontro con “Black Jack” Brabham, ma avevo anche conosciuto Bonnier e Siffert e tutti mi avevano trattato con grande disponibilità e semplicità di modi. I miei modelli erano loro, gente che passava senza fare storie da una F1 ad una Turismo Gr. 2, mettendoci sempre lo stesso impegno, la stessa grinta, la stessa passione, se vogliamo, la stessa professionalità. Gente che poi nel paddock di una gara Turismo, era lì con gli altri piloti delle categorie “inferiori”, senza atteggiamenti divistici o roba del genere.
Da ragazzo, il mio idolo era Von Trips che poi sarebbe perito a Monza in un tragico Gran Premio nel quale morirono diversi spettatori: nel mucchio di F1 che andava verso la Parabolica, dopo aver fatto l’Ascari che allora era senza chicane e quindi velocissima, la sua Ferrari fu urtata dalla Lotus di Jim Clark, s’impennò, volò sopra le reti e piombò sugli spettatori.
Von Trips, che gli amici chiamavano Taffy, nel corso dell’ultima Mille Miglia (56?) stava raggiungendo Taruffi che poi l’avrebbe vinta e rinunciò al successo in quella che già allora era una gara epica, perché epico era l’impegno che si richiedeva al pilota.
Sapete perché rinunciò ? Semplicemente perché Taruffi aveva promesso alla moglie che, se avesse vinto, coronando con l’alloro più importante la sua carriera, avrebbe finalmente smesso di correre. Alla sosta di Bologna, Ferrari glielo chiese e lui lo fece: rallentò e mantenne le posizioni nonostante Taruffi avesse dei problemi alla trasmissione.
Von Trips era solito correre con una Lacoste rossa e da quando ho cominciato a correre ho sempre indossato una Lacoste, anche poi sotto l’ignifuga, perché era un mio modo di sentirmi vicino ad un pilota e ad uomo che stimavo, anche se con gli anni è diventata una piccola scaramanzia Negli anni ’80 ho avuto modo di conoscere l’ex compagna di “Taffy” e per me è stata veramente una grande emozione sentirle raccontare tanti episodi della vita di von Trips…
Ed a proposito di scaramanzie, mi sono sempre rifiutato di far mettere in auto una macchina da ripresa o poi una telecamera, perché mi ossessionava l’idea che poi si potesse rivedere il filmato e capire…come era successo ! Oggi mi dispiace non avere un ricordo del genere, ma chissà, magari non è mai accaduto nulla perché non avevo la telecamera: chi può dirlo ?
Ed ora veniamo al commiato: è capitato che da una ventina di giorni mi abbiano diagnosticato un tumore. Sì lo so che si cura, che oggi si fanno tante cose ecc, ecc, ecc, ma ogni caso è particolare ed il mio è abbastanza serio.
Questo evento ha cambiato molte cose nella mia vita di tutti i giorni, perché ora le mie settimane sono ritmate anche da analisi mediche, indagini, radiografie, tac, consulti e rotture di ogni genere, il tutto nascosto alle mie figlie alle quali per il momento non voglio dire nulla. E questo complica ulteriormente le cose.
Comunque, senza andare troppo nel personale, mi capita che adesso abbia molto meno tempo da dedicare ad altro. Tutto qui.
Nelle riflessioni di questi giorni, si consolida sempre più l’idea di quanto la mia vita sia stata fortunata: non che non abbia avuto problemi e che non ce li abbia ancora oggi, ma al momento di un bilancio, questo non può essere che positivo.
Ho avuto la fortuna di avere una moglie adorabile, due figlie splendide e due nipotini simpaticissimi ed anche la fortuna di riuscire in quella che era ed è la mia passione più grande: le auto da corsa.
Ho avuto ancora la fortuna di avere un talento naturale, di vivere anni meravigliosi, di condurre e pilotare macchine da sogno, di conoscere uomini che sono nella storia dell’automobilismo mondiale e d’imparare qualcosa da loro, soprattutto in termini di modestia, perché comunque potrete vedere mille volte Senna impostare una curva, ma non imparerete mai a farla come lui.
Non ho mai avuto e non ho neanche oggi il rimpianto di aver detto no quando mi si proponeva di passare ad un impegno maggiore: non so se sarei riuscito a raggiungere i livelli più alti, ma certamente non avrei realizzato altre cose che, oggi come allora, per me sono più importanti.
Non voglio fare del sentimentalismo di maniera, ma per me i ricordi più belli degli anni passati correndo sono legati ai bambini: la prima volta che uno di loro mi chiese l’autografo…ed un’altra volta, quando un bambino era praticamente abbracciato alla mia auto, schierata prima della partenza in Targa…ed io lo presi in braccio e lo feci sedere al posto di guida: be’ il suo sorriso incredulo, poi gli occhi a terra vergognoso…e poi quegli occhietti neri che brillavano, sprizzavano felicità. Ecco, per me è stata una gioia grandissima fare felice quel bambino: non ho mai dimenticato quegli occhietti e sono sicuro che anche lui si ricorderà di me con simpatia.
Allora ragazzi, nel momento del commiato, allego una mia foto un po’ emblematica (scusatemi se ho cancellato il viso): giovane, mi sto allacciando o slacciando il casco.
Una gara che sta per iniziare o una gara che è già finita ?
Vi abbraccio tutti.
Sigfried