da AUTO D'EPOCA (12/2004): Destino. Da dizionario, questa parola significa “il susseguirsi degli eventi, considerato come necessità ineluttabile, predeterminata da una forza superiore”; destino umano “è ciò che l’uomo si sente chiamato ad attuare nel mondo, accettando la sua situazione”. Il destino da attuare a cui Alberto si sentì chiamato fin dalla più tenera età fu quello di ripetere le gesta del padre, cancellarne la morte rinnovando le sue imprese e i suoi successi. Se il padre Antonio era stato un grandissimo pilota automobilistico (vedi Auto d’Epoca, novembre 1995) egli non sarebbe stato da meno. Ma suo padre era morto a Montlhéry, in un incidente inspiegabile, il 26 luglio 1925: e da questa morte inaspettata, imprevedibile, che spezzava una carriera solo da poco illuminata da grandi successi, spirava un senso di paura, di “destino fatale” che finì per posarsi anche sulla vita di Alberto, allora settenne. Egli avrebbe spezzato quel sortilegio. Avrebbe dimostrato che non si muore, se si fa attenzione: se si evitano i numeri di gara o di stanza 13 e 17, se non si corre mai di giorno 26, se non si posa il cappello sul letto, se si indossano in corsa gli stessi indumenti usati in prova, se si porta sempre lo stesso caschetto, gli stessi guanti, se si organizza la propria vita con meticoloso scrupolo, nulla lasciando al caso. Egli non sarebbe morto come il padre: ne avrebbe sfidato la morte, in tutte le corse. Così, ogni vittoria diventò per lui un’affermazione di vita. Perché allora, quel giorno 26 maggio del 1955, con alle spalle una lunga serie di vittorie, cinque titoli di Campione d’Italia, due di Campione del Mondo, una militanza nelle più grandi squadre italiane, Maserati - Ferrari – Lancia, sovvertì tutte le sue abitudini? Quel giovedì, a soli quattro giorni da un incidente a Montecarlo in cui era addirittura caduto in mare, si presenta a Monza dove si stanno svolgendo le prove della 1000 chilometri che si correrà domenica. Si avvicina alla Ferrari sport 3 litri di Castellotti, gli chiede di provarla. E’ amico di tutti, anche se dalla Ferrari è passato da due stagioni alla Lancia. Chi gli può negare un favore? E poi si tratta soltanto di qualche giro. Con questa richiesta, Ascari infrange in un colpo solo le leggi a cui si è finora sempre assoggettato. Prende il volante di una macchina un giorno 26 (che aveva sempre evitato, perché il giorno della morte del padre); si fa imprestare il casco da Castellotti; non ha indosso i soliti indumenti-talismano, ma è in giacca e cravatta. L’amico Villoresi lo guarda stupefatto. E quando quest’ultimo sente un terrificante urlo del motore gli si ghiaccia il sangue nelle vene. Comprende che è tutto finito, che Alberto è morto, e solo a stento riesce a trascinarsi al luogo dell’incidente (l’uscita della curva del Vialone, poi curva Ascari). “Se devo esaminare, a tanti anni di distanza – sono le sue parole – quello che avvenne allora, devo giungere ad una conclusione singolare: Alberto Ascari aveva paura. Lo spaventava quel suo destino che immaginava già scritto, quel ripetere a distanza le orme del padre. Già sapeva che il rovescio delle sue doti di asso, dei suoi successi, dei suoi allori di campione del mondo era la morte. Più volte nel 1955 l’avevo sentito dire “io quest’anno muoio”. C’erano troppe inquietanti analogie con il padre e la sua tragica fine: l’anno finiva con il 5 (1925 – 1955), entrambi avevano 37 anni, e quel giorno era un 26 (26 maggio, 26 luglio). Alla morte era preparato e l’incidente di Montecarlo deve essergli sembrato una premonizione. Ritenne di dover sfidare il destino, di dimostrare a se stesso di essere sempre Alberto Ascari. Per un pilota come lui era impensabile salire su una macchina da corsa senza il proprio casco, i propri occhialoni, i propri guanti. Eppure, come chiamato da una forza irresistibile, si alzò e se ne andò”(Villoresi. “Il Gigi nazionale”, di Cesare de Agostini, Nada, 2004). Secondo Piero Casucci, storico ed appassionato che ne scrisse appena un mese dopo, “bisogna pensare che il ciclo di quest’uomo fosse ormai definitivamente compiuto o lo fosse almeno come sportivo … che fosse giunto all’apice della sua perfezione”. Il suo incidente, scrisse Ferrari, “può essere indicato come l’incidente-tipo: quell’evento cioè nel quale la verità sull’accaduto rimane oscura perché l’armonia uomo-macchina viene bruscamente modificata da un improvviso e imponderabile elemento di disordine”. Ma quale fu questo elemento di disordine? Sull’asfalto rimasero i segni di una frenata disperata, due segni neri paralleli alla strada, l’erba tranciata ai bordi della pista, senza alcun indizio di sterzata. Il pilota aveva appena ingranato la quinta, e andava almeno a duecento hm/h, “più probabile duecentodieci che centonovanta”, testimoniò Villoresi. C’era vento. La macchina, all’inizio del rettilineo successivo alla curva, potrebbe aver girato su se stessa e quindi essersi impennata capovolgendosi sul prato. Il corpo di Alberto fu sbalzato a quindici metri di distanza. La morte fu quasi istantanea, per sfondamento del torace. Forse una manovra errata, conseguenza dello choc subito a Montecarlo (in fondo uscire di strada a 160 km/h e trovarsi in mare a dieci metri di profondità non è un’inezia); forse la cravatta si sollevò per un colpo di vento a coprirgli la visuale, facendogli perdere il controllo della vettura, forse un malore, forse qualcuno gli attraversò improvvisamente la strada, ignaro che a quell’ora (era quasi l’una) ancora si provasse. Forse il destino. “I grandi piloti italiani della terza generazione sono stati – scrisse Ferrari nelle sue memorie – Alberto Ascari, Eugenio Castellotti e Luigi Musso. Ascari è l’uomo che apre la serie…un uomo e un pilota dei più singolari. Era dotato di ferma volontà, sapeva ciò che voleva, era puntiglioso: uno dei pochi, per esempio, che si preparasse atleticamente alla competizione automobilistica. Amava la famiglia, ma se ne faceva una religione tutta sua. Una volta gli chiesi la ragione per cui si dimostrava tanto severo con i suoi figlioli, che ben sapevo quanto egli amasse. Mi rispose: “Ogni volta che rientro da una corsa, porto loro tutto quello che penso possa farli contenti, in genere io cerco di soddisfarli in tutti i loro desideri, i loro bisogni, anche i loro capricci; ma quanto a me, preferisco trattarli con durezza: non voglio che mi amino troppo. Un giorno o l’altro potrei andarmene. Soffriranno di meno, se non me li sarò lasciati venire troppo vicini”. Una strategia familiare che prende le mosse, palesemente, dal grande dolore che provò egli stesso, per la perdita del padre. Diverse fotografie del 1924/1925 testimoniano il saldo legame tra il bimbo Alberto e suo padre: entrambi ritratti accanto alle poderose Alfa dell’epoca, il bambino vestito alla marinara con un cappellone tondo, la manina sul cofano, l’aria di orgoglio per avere un padre tanto grande, tanto importante, capace di arrivare prima di tutti. E quell’altro, dal faccione quadrato e bonario, che tradisce con il sorriso la sua trattenuta tenerezza. Forse se lo stava lasciando “venire troppo vicino”. Com’è inevitabile, la sofferenza degli anni successivi fu davvero grande. Le stagioni passarono lentamente. La madre decise di imbrigliare senza debolezze la vivacità del ragazzino, e Alberto frequentò le elementari e il primo anno di ginnasio al collegio Nazionale di Milano. A undici anni però (era nato il 13 luglio 1918), l’istinto fu più forte di tutte le raccomandazioni materne. Volle provare una motocicletta, dopo aver sfinito a furia di insistenze il meccanico Goliardo Bassetti, colui che gli insegnò i rudimenti della guida, nella vicina piazza d’Armi dietro la Fiera. Quella piazza fu il teatro delle sue prime acrobazie. Che continuarono a Monza, a dieci lire la giornata, raggranellate vendendo ogni volta il dizionario di greco (che la madre gli ricomprò per cinque volte, convinta che il figlio fosse preso di mira da compagni ladri). Durò fino a quando la madre non si accorse di tutto, compresa una fuga, e non lo spedì, sempre in collegio, ad Arezzo, che giudicava sufficientemente lontano da Monza. Anche da lì Alberto scappò, con il risultato di essere spedito in un altro collegio ancora più lontano, a Macerata. Scappò di nuovo, e stavolta non vi tornò più. Gli amici motociclisti Silvio Vailati e Nino Grieco gli fecero da battistrada e da guida: ormai aveva diciotto anni, nessuno sarebbe riuscito a fermarlo. Arrivò l’ora della sua prima corsa: il 27 giugno 1936 partecipa alla 24 Ore di Regolarità organizzata dall’A.C. di Milano, su una nuovissima Sertum 500 2 cilindri che si era comprato vendendo il suo orologio d’oro (e con il concorso della madre, ormai rassegnata). Se il debutto non è dei migliori, in una discesa nei pressi di Pisa gli salta il freno posteriore e finisce a capofitto dentro un orto, la seconda gara coincide con la prima vittoria della sua carriera: è il circuito del Lario, corso il 4 luglio. Ha deciso, la sua vita è questa: le corse in moto, e il lavoro nel negozio di famiglia, una Commissionaria Fiat. Nel 1937 Ascari si compra una Gilera 500, passa al velocismo con la Scuderia Ambrosiana, insieme a Silvio Vailati e Nando Balzarotti. Ottiene una serie di lusinghieri risultati nelle gare delle 500 sport, in cui sfoggia una casacca bianca a bande incrociate nero-azzurre. E’ primo al circuito di Forlì, secondo alla Milano – Taranto e al circuito di Piacenza, primo al circuito di Trento, alla Biella-Oropa e al circuito di Luino, secondo a Frosinone, primo a Taranto. La Bianchi si accorge di lui, e gli offre di correre nella squadra ufficiale, insieme a Aldo Rebuglio e Guido Cerato: 300 lire al mese e premi doppi in caso di vittoria. Corre per la Bianchi nel 1938 e nel 1939, cogliendo ottimi risultati (è medaglia d’oro nella durissima 6 giorni internazionale di Garmisch del 1939), ma anelando di arrivare, prima o poi, all’automobile. Si compra una Balilla, poi, nel febbraio del 1940, la vende e si compra una “Auto Avio Costruzioni” 815, ossia la prima vettura costruita da Enzo Ferrari, una vettura sport di 1500 cc e motore a 8 cilindri. Il 28 aprile si corre la Mille Miglia, sia pure un’edizione ridotta e corsa sul triangolo chiuso d i Brescia-Cremona-Mantova. Si iscrive in coppia con l’amico Silvio Vailati, poi sostituito in gara da Giovanni Minozzi. Dopo duecento chilometri sono al comando della loro categoria, quando la rottura di una valvola li costringe al ritiro. Decide allora di comprarsi una Maserati 2300 8 cilindri con compressore da un certo Luigi Villoresi, che diventerà il suo più grande amico, e con il quale condividerà quasi tutta la sua vita professionale. Per la verità questo primo incontro porta soltanto alla consapevolezza di aver acquistato una vettura dalla “testa” fresca di saldatura…tanto da rivenderla subito e comprarsi da Taruffi la sua Maserati 6 cilindri. Con quest’ultima va a Tripoli, dove si classifica nono, dietro Taruffi che corre sulla Maserati 4 cilindri. Ma si fa notare: Corrado Filippini, su Auto Italiana, osserva: “Molto da dire sul debuttante Alberto Ascari, che ha rivelato notevoli doti anche al volante di una vettura da corsa. Vogliamo dire stile facile, controllo, senso tattico, riflessione, tutte qualità non facili a trovarsi in un giovane come Ascari”. (AI, 20.05.1940). L’ultima sua gara prima della guerra é la Targa Florio, dove dovrà ritirarsi. L’ultima gara della stagione anteguerra è però il II circuito motociclistico della Superba, a Genova, dove cade, incontrando la morte, il fraterno amico Silvio Vailati. Curioso destino, anche questo: la data della gara è il 26 maggio, e pure Silvio, valente motociclista, aveva impostato la sua vita di sportivo come “continuatore delle gesta del padre”, Ernesto, grande campione delle due ruote. ”Nella sua passione si intuiva come l’anelito di una volontà di superamento che andava oltre la mira di una classifica, di un premio, di un elogio. Egli che aveva aperto gli occhi, diremmo, fra le motociclette; che i motori aveva avuto per trastullo negli anni della sua infanzia; che la motocicletta aveva studiato negli anni della prima giovinezza, doveva subire fatalmente il fascino di questa nostra divina macchina e ad essa votarsi” (Motociclismo, 30.05.1940). Con queste parole, che esattamente quindici anni dopo furono ripetute per Alberto, tutto si ferma per la guerra. Ascari scappa in Val d’Aosta, si parla di fughe nei boschi di Courmayeur, per non cadere nelle mani dei tedeschi, di notti all’addiaccio. Nel 1942 sposa Mietta Tavola, nel 1943 nasce Tonino, quattro anni più tardi Patrizia. Alberto, diventato sposo e padre, lavora sodo, non pensa più alle corse, forse, sospira la madre incredula, ha messo la testa a posto. Però non l’hanno messa i suoi amici. Dal momento in cui le gare riprendono, nel 1946, Gigi Villoresi soffia sulla cenere, solletica il suo orgoglio, lo stuzzica in tutti i modi. E non occorre tanto per farlo cedere. A dare il colpo di grazia alla sua volontà residua la notizia, per tramite di Taruffi, che l’industriale Dusio è disposto a dargli una delle sue Cisitalia per il Gran Premio d’Egitto del 1947. E’ fatta: ci va, in batteria arriva secondo dietro Taruffi e prima di Dorino Serafini, in finale attacca e supera Dusio, attacca e supera Taruffi e scatena una lotta acerrima con Cortese, che vince. Torna dall’Egitto, a marzo, con un solo pensiero: ricominciare. Firmando un pacco di cambiali, si compra una splendida Maserati 4 cilindri, alla pazzesca cifra di cinque milioni. Ricominciano le gare, insieme all’amico Villoresi, anch’egli su Maserati. I primi risultati non sono granché: un ritiro al Gran Premio di Reims (ed una fattura del meccanico di seicentomila lire), un quinto posto al Gran Premio di Albi, quarto al Gran Premio di Nizza, di nuovo quinto al Gran Premio d’Italia a Monza. E’ però sufficiente per la Maserati, che decide di affidargli ufficialmente una delle sue vetture, le nuove sport due litri, al Gran Premio di Modena. Arriva la prima vittoria, anche se è una vittoria di cui avrebbe fatto a meno. E’ in testa quando Bracco, alle sue spalle, vola fuori strada, uccidendo degli spettatori. La gara è sospesa, la classifica dei corridori è stabilita secondo la posizione al momento della sospensione. Vince perciò Ascari, anche se è una triste vittoria. Nonostante il consuntivo della stagione 1947 sia di una sola affermazione, la Maserati gli conferma la fiducia, e intanto si fa avanti anche la Ferrari, approfittando del fatto che non esiste tra la casa modenese e il pilota un regolare contratto. Ascari però, per il momento, preferisce la Maserati, con cui corre al Giro di Sicilia, alla Mille Miglia e al circuito di Bari (tutti ritiri), al circuito di Mantova (quinto), a San Remo, dove vince. A Montecarlo si schiera alla partenza su una Maserati Grand PRIX monostadio, mentre i compagni di squadra disponevano della doppio stadio; deve abbandonare per guasto ma riprende sulla macchina di Villoresi e arriva quarto, anche se ufficialmente gli organizzatori gli assegnano il quinto posto. Stesso risultato nel G.P. di Svizzera, a Berna, una gara oscurata dalla morte di Achille Varzi in prova. Proprio per la dolorosa necessità di sostituire Varzi, e anche Trossi ormai attaccato dal male che l’avrebbe portato alla fine, l’Alfa Romeo prova a contattare sia Villoresi (che rifiuta, memore della morte del fratello Emilio su una macchina di quella marca) sia Ascari per il Gran Premio di Francia, a Reims. Alberto accetta, forse per la stessa ragione per cui Villoresi rifiuta: si tratta della gara e della squadra per cui il padre aveva perso la vita ventitré anni prima. Sarà una delle rarissime volte che i due amici correranno sotto colori diversi. “Ero sicuro che Alberto sarebbe passato all’Alfa Romeo – dirà anni dopo Villoresi – Non ho mai saputo e non gli ho mai chiesto le ragioni per cui, dopo quella prova di Reims terminata al terzo posto, sia tornato con noi alla Maserati, senza più accennare a quell’episodio” (Villoresi. “Il Gigi nazionale”, cit.). Il 15 agosto, infatti, Ascari è già sulla sua Maserati sulle velocissime strade del circuito di Pescara. La solita scalogna lo costringe al ritiro al terzo giro ma quando Bracco abbandona, inseguito dai fantasmi del suo ultimo incidente, lasciando a disposizione una Maserati, Ascari non se lo fa dire due volte, riparte e conquista la sua terza vittoria. E’ l’ultima affermazione della stagione. Il 1949 si apre nel migliore dei modi: in Argentina corre su Maserati, come fa il fido Villoresi, e vince il I Gran Premio Generale Peron sul circuito di Buenos Aires, battendo l’argentino Juan Manuel Fangio sulla linea del traguardo, per sessanta secondi. “Dinanzi ad un pubblico che pareva marea, Alberto Ascari ha sfoggiato il suo stile più bello trascinando all’entusiasmo i già bollenti spettatori argentini”. Tradotti dall’usuale retorica, significa che il trionfo di Ascari si tramutò, da parte del pubblico, in una sorta di festosa caccia all’uomo, da cui il pilota, inseguito da migliaia di persone, trovò scampo solo con una fuga attraverso i prati del Parco Palermo. Nelle stesse settimane, però, il clima alla Maserati era tutt’altro che festoso: una pesante vertenza sindacale, innescata da una situazione economica preoccupante, aveva addirittura portato ad una temporanea chiusura delle officine. In questa situazione si inserì, più agevolmente delle altre volte, Enzo Ferrari, offrendo un posto in squadra ai due amici. Il 1949 diventa dunque la prima stagione disputata da Ascari e Villoresi per la Ferrari. Alberto esordisce al Gran Premio di Bari, che vince “in maniera impeccabile”, favorito da un brutto incidente di Villoresi che investe un cane uscito chissà come sulla pista. “Non gli costa fatica correre – commenta in quell’occasione la stampa – ed anche lo sforzo nervoso sembra in Ascari essere ridotto al valore più basso tanta è la calma, la placidità, verrebbe voglia di dire, che lo assistono in ogni momento” (AI, 15.06.1949). “Il suo stile di guida? Una rapsodia selvaggia cantata dalle quattro ruote e dal rombo di un motore mai spinto al massimo della sua potenza. Impossibile fare paragoni, perché Ascari guida con irruenza ed eleganza al tempo stesso” (Il Giorno Illustrato – Sport, 1953). La sua tattica in gara è semplice ed audace: prendere la testa e tenerla fino alla fine. Ma la adatta alla situazione di volta in volta, come spiega egli stesso: “Nelle gare di circuito breve è una buona politica far credere ai vostri rivali che essi non hanno la minima possibilità di battervi. Nelle corse dove si richiede una maggior durata, e quindi una più provata resistenza, allora è preferibile far credere loro, all’inizio, che possono vincere” (Settimo Giorno, 27.05.1955). Nella stagione 1949, Ascari vince ancora nel G.P. di Svizzera, nel G.P. di Francia (Coppa “Piccole Cilindrate”), nel G.P. di Silverstone, e nel Gran Premio d’Europa corsosi a Monza. Al termine dell’anno, il suo primo titolo: è Campione d’Italia assoluto nella categoria corsa. La stagione 1950 è altrettanto se non più intensa: lo aspettano ventisette gare, di cui dieci vinte. Dopo la vittoria al Mar del Plata, in Argentina, è la volta di Modena, Mons (Belgio), Lussemburgo, Roma, Reims, Nürburgring, Silverstone, Garda e Barcellona. Naturalmente, si riconferma Campione d’Italia. Si arriva al 1951, l’anno in cui dimostra di poter agevolmente aspirare al Campionato del Mondo, in lotta alla pari con Fangio. La stagione inizia per Ascari con uno sconfinamento nel settore rallystico; partecipa, in coppia con Villoresi, al Rallye del Sestriere dove i due amici colgono una vittoria assoluta. Quindi cominciano le gare del campionato: gran premio dopo gran premio, la contesa diventa una faccenda personale tra lui e l’argentino. Dopo un sesto posto a Berna, un secondo a Spa e a Reims, Ascari prende il via nel G.P. di Germania deciso a conquistare la sua prima vittoria iridata. Al Nürburgring i due piloti corrono ruota contro ruota, pronti reciprocamente ad approfittare del minimo cedimento dell’avversario. Arriva prima Ascari, su Ferrari 4500 cc e 330 cavalli di potenza, seguito come un’ombra dall’argentino, che a fine corsa si complimenta con lui. “Data la sua sicura impostazione che non ammette incertezze e la sua impassibilità nelle correzioni, lo stile di Ascari non è spettacolare come quello di altri piloti, alcuni dei quali guidano con tutti i muscoli, compresi quelli facciali. Ascari guida infatti solo con le braccia e il cervello. La sua guida è più che altro uno spettacolo delizioso per gli intenditori più raffinati” (AI, 15.08.1951). La contesa riprende alla corsa successiva. Si tratta di Monza, penultima competizione della stagione. La classifica per l’assegnazione del titolo di campione del mondo vede al primo posto Fangio con 28 punti e al secondo Ascari con 17. Se il pilota argentino conquista quella corsa a Monza, il titolo é suo. Invece quel 16 settembre 1951, dopo aver percorso oltre metà gara ruota a ruota con l’avversario, si impone Ascari, che arriva perciò a 25 punti, tre soli di distanza da Fangio. Dopo sei gare vinte alla pari, tre all’uno e tre all’altro, si sarebbero giocati il tutto per tutto all’ultima corsa della stagione, il G.P. di Spagna a Barcellona. Fino al quinto giro Ascari si tiene nella scia del rivale, poi si stacca all’improvviso, e aumenta il divario progressivamente. Ma al giro successivo accade l’imprevedibile: cedono le gomme, scelte di misura troppo ridotta (7,50x16 posteriori e 5,50x16 anteriori) per sostenere l’usura del difficile tracciato. E’ costretto ad una sosta per cambiare le gomme Taruffi, a cui poi si rompe un semiasse, al settimo giro si ferma Villoresi, prima per le gomme poi per un guasto alla trasmissione. Al nono deve fermarsi ai box Ascari, che pure non demorde mai, ma dovrà cambiare gomme ripetutamente, finendo per accumulare due giri di distacco. La gara è persa, Fangio, su Alfa Romeo, precede sul traguardo Gonzalez, Farina e Ascari e diventa Campione del Mondo. La stagione 1952, però, è la sua. Vince a Siracusa, Pau, Marsiglia, Spa, Rouen, Silverstone, Nürburgring, Saint-Gaudens, Zandvoort, La Baule e Monza. La fiducia di Ferrari in lui è totale, tanto da preferirlo ai più maturi Farina e Villoresi per la 500 Miglia di Indianapolis, dove peraltro Alberto sarà costretto al ritiro per un guasto. Diventa e leader indiscusso di una squadra in cui era entrato appena tre anni prima, come “novellino”, e si laurea Campione del Mondo. Non è facile per Villoresi passare da prima guida a gregario, scalzato dal suo “allievo” e fraterno amico. Ma non ci sono ombre nel rapporto tra i due, che si ripresentano con intatte energie alla stagione 1953. La squadra ufficiale del cavallino comprende Ascari, Farina, Campione del Mondo 1950, Villoresi e Hawthorn, ancora poco conosciuto in Italia; la Maserati si basa invece su Fangio, reduce da un pauroso incidente all’inizio della precedente stagione; Froilan Gonzalez, noto per la sua irruenza, che dopo aver dato alla Ferrari la prima storica vittoria in una gara del Mondiale F1 (il G.P. di Gran Bretagna del 1951), nel 1952, con la Maserati, si era classificato secondo alle spalle di Ascari nel Gran Premio d’Italia e pure secondo alle spalle di Villoresi nell’ultima gara della stagione, il G.P. di Modena; Felice Bonetto, esperto e generoso; Oscar Galvez, conterraneo e rivale acerrimo di Fangio. Fin dall’inizio però la superiorità del binomio Ferrari – Ascari è impressionante. Alberto si aggiudica i G.P. di Argentina, PAU, Bordeaux, Olanda, Belgio, Gran Bretagna, Svizzera e persino la 1000 chilometri del Nürburgring, una prova di fondo che manca al suo palmarès. Si conferma Campione d’Italia, si conferma Campione del Mondo. La sua gara capolavoro è quella di Francorchamps, la terza in calendario, dopo Buenos Aires e Zandvoort. Al nono giro i giochi sembrano conclusi, conducono i due argentini Gonzalez e Fangio davanti ad Ascari. Il trentaduenne Gonzalez da’ l’impressione di una forza e di un impegno senza limiti, l’esatto opposto dall’apparentemente tranquillo ma in realtà concentratissimo Ascari. Questi non sembra preoccuparsi del suo terzo posto. Secondo Ferrari, che ne commentò il modo di guidare nelle sue memorie, si tratta di una situazione poco congeniale al suo temperamento. “Il pilota Alberto Ascari aveva uno stile preciso e deciso, ma era l’uomo che aveva bisogno di partire in testa. Ascari in testa era difficilmente superabile: oserei dire ch’era impossibile superarlo…relegato in seconda posizione o più indietro, non era il combattente che io avrei desiderato di vedere in certe occasioni. Non perché disarmasse, ma perché quando doveva inseguire e doveva superare l’antagonista evidentemente soffriva non di un complesso d’inferiorità ma di un nervosismo che non gli consentiva di esprimere la sua classe. Per Ascari valeva proprio l’opposto della norma: di solito infatti il pilota che si trova in prima posizione è preoccupato di mantenerla, si può distrarre nel controllare la situazione dietro a lui, studia il proprio passo, è spesso incerto se spingere o no; Alberto invece si sentiva sicuro proprio quando faceva la lepre; in quei momenti il suo stile diventava superbo, e la sua macchina imprendibile” (Piloti che gente, Conti Editore 1985). Niente di meno riferibile a quanto successe quel giorno in Belgio. Dal nono giro Ascari attacca, inquietando i due leader argentini. I quali sanno di avere delle vetture più veloci, ma sanno anche che chi li sta inseguendo é il Campione del mondo in carica…Accelerano entrambi, arrivano a sfiorare i 190 km/h. Al 12° giro il motore di Gonzalez inizia a tossire, la macchina rallenta, l’argentino è costretto ai box: e uno. Rimane Fangio, che si sente ancor più di prima il fiato di Ascari sul collo. Tenta l’impossibile, forza troppo la macchina, fonde: è costretto a fermarsi anche lui. E due. Ma la gara non è finita. Perché Fangio torna in pista con un’altra macchina, tenta di riacciuffare l’avversario, ormai primo. Al trentesimo giro, sei dalla fine, l’argentino è terzo. Nel disperato tentativo di portarsi avanti prende una curva a velocità eccessiva, esce di strada, si schianta contro un albero. Non riporta ferite ma stavolta la gara per lui è davvero finita. Ascari termina in 2 ore 48 minuti e 30 secondi, con tre minuti di vantaggio sul secondo arrivato. E’ suo il trofeo d’argento, sono suoi gli otto punti della vittoria, sarà sua la stagione. Un non combattente? Non è da escludere che ci sia stato anche questo malcelato giudizio a far decidere Ascari, alla fine della trionfale stagione, di cambiare squadra. Racconta egli stesso in un’intervista rilasciata a gennaio 1954 al “Tempo” che é Ferrari a chiamarlo a Modena, il 29 dicembre precedente, per chiedergli di anticipare il rinnovo del contratto (che sarebbe scaduto il 30 aprile 1954). Ascari rimane titubante di fronte a questa fretta. Risponde che ha avuto altre vantaggiose proposte; che se deve decidere subito è no; se può decidere alla giusta scadenza probabilmente é sì. Ferrari esige invece una risposta immediata, ed è no. “Ci conoscevamo da tanti anni, io e Ferrari. Avevo firmato il mio primo contratto per lui nel marzo 1949; avevo vinto la mia prima gara sulla vettura del cavallino rampante il 12 giugno dello stesso anno, a Bari; avevo colto con la Ferrari due campionati del mondo e quell’addio non poteva non commuovermi. Credetemi: mi è spiaciuto di aver lasciato un vecchio amico”. La squadra nuova è la Lancia. Da tempo infatti è amico di Gianni Lancia, da tempo si parla di una strepitosa macchina di Formula 1, progettata da Vittorio Jano che, tra l’altro, era stato il progettista dell’Alfa Romeo P2 di suo padre. Naturalmente con lui è il fido Villoresi, e così il favore è reso: Villoresi si era portato Ascari in Ferrari, questi ricambia cinque anni dopo portandoselo dietro in Lancia. La laboriosa messa a punto della nuova grand prix torinese costringe i due piloti ad una certa inattività, da cui evadono disputando gare per vetture sport o pilotando vetture di altre marche. Per Ascari il 1954 é l’anno della sospirata vittoria alla Mille Miglia, tentata più volte senza successo. E’ per lui l’occasione definitiva per smentire di essere un “ottimo velocista ma un modesto stradista”. Con la stessa vettura, una Lancia 3300 sport, partecipa anche, ma senza successo, alla 12 Ore di Sebring, al Gran Premio di Oporto, al Tourist Trophy. Si diverte infine, con il consenso della Lancia, a correre per la Maserati i Gran Premi di Francia e Gran Bretagna e per la Ferrari il Gran Premio d’Italia. Arriva finalmente il momento del debutto della Lancia, a Barcellona. Dopo aver segnato il miglior tempo in prova, Ascari segna il miglior tempo in corsa a 161,948 km/h di media. Deve ritirarsi per una infiltrazione d’olio nella frizione, ma l’impressione suscitata è comunque enorme. Nella nuova stagione 1955, due le vittorie, nel Gran Premio del Valentino a Torino e in quello di Napoli. Quindi Montecarlo, in cui un formidabile schieramento vede riuniti Fangio, Moss, Simon (Mercedes), Ascari, Castellotti, Villoresi, Chiron (Lancia), Behra, Mieres, Musso, Perdisa, Rosier (Maserati), Trintignant, Farina, Taruffi, Schell (Ferrari), Hawthorn (Vanwall), Manzon, Bayol, Pollet (Gordini). Succede quasi tutto dal 50° giro in poi. Fangio, alla testa del plotone, è costretto al ritiro per la rottura del ponte. Passa al comando Moss, con 1’22” di vantaggio su Ascari, secondo, mentre tutti gli altri sono doppiati. All’80° giro la Mercedes di Moss si mette a fumare, e per l’inglese è la fine della giornata. L’entusiasmo degli italiani tocca le stelle perché adesso a condurre c’è Ascari. E’ un momento che dura poco. Ascari tiene la testa per poco meno di un giro perché arrivato alla chicane lungo il porto, forse per il bloccaggio di un freno anteriore (le Lancia avevano accusato un’imperfetta dosatura della frenata), forse per una slittata su una piccola macchia d’olio, urta nello sbarramento dei sacchetti di sabbia, la vettura si impenna e precipita in mare…Un analogo incidente era capitato a Chiron nel 1932 ma allora il parapetto di protezione in legno era stato sufficiente. Anche stavolta, apparentemente, tutto si risolve per il meglio: Ascari risale a galla, e con poche bracciate raggiunge il sommozzatore che si era tuffato in suo aiuto. Scriverà a commento il pilota ed amico Giovanni Lurani: “Da Montecarlo abbiamo portato a casa con noi l’intima gioia di aver visto il nostro indimenticabile amico Alberto Ascari in piena forma e pressoché incolume dopo il più fantastico incidente che la storia delle corse automobilistiche ricordi. Non sapevamo allora che quattro giorni più tardi, il destino a cui era sfuggito miracolosamente a Montecarlo, doveva raggiungerlo a Monza e privare l’automobilismo italiano del suo più grande campione che meglio di ogni altro poteva guida l’attacco delle vetture di Italia contro i poderosi avversari stranieri”. (Donatella Biffignandi) |