Il cavalluccio dei Florio Alla fine del XIX secolo, una delle tante iniziative della potente famiglia di imprenditori è l'apertura a Palermo della fabbrica della Ceramica Florio, col marchio del cavalluccio marino, che nei primi anni del '900 diventa un imponente impianto industriale all'avanguardia per quei tempi. Un progetto ambizioso che, tuttavia, non darà i risultati sperati. La fabbrica di ceramiche aperta a Palermo da Ignazio Florio nel 1882 si affiancava alle numerose altre attività industriali che la celebre famiglia di origine calabrese aveva intrapreso sin dall'inizio del secolo XIX. Sembra che fosse nata quasi esclusivamente per esigenze private, e in particolare per il rifornimento delle stoviglie alle navi della loro flotta addette ai collegamenti marittimi tra i porti siciliani, l'Isola e il Continente. Non sorprende, quindi, che i manufatti con il marchio del cavalluccio marino, assenti nell'Esposizione Universale di Palermo del novembre 1891, fossero apparsi sul mercato soltanto dopo il 1900, quando alcune realizzazioni vennero proposte al pubblico nel padiglione della Mostra della città di Palermo e nell'Esposizione Agricola del 1902. Le officine, rimaste in via Fossi, presso i Cantieri Navali Florio, fino al 1910, allorché vennero trasferite con intenti di moder-nizzazione nella via Serradifalco, occuparono una superficie attrezzata di circa 5.700 metri quadrati; un imponente apparato industriale di moderna concezione in cui le macchine necessarie alle varie fasi della lavorazione delle argille utilizzavano la forza meccanica delle caldaie a vapore e l'energia di un gruppo elettrogeno d'avanguardia. Le alte ciminiere delle varie fornaci visibili da piazza Camporeale, la muffola a riverbero per la cottura a terzo fuoco e la macchina per la decorazione a decalcomania evidenziavano gli intenti di una produzione ad ampio respiro, destinata a superare i confini regionali. Alla luce dello sviluppo delle attività intraprese, i risultati si rivelarono inadeguati all'impegno progettuale. Il limitato successo commerciale delle opere e la loro scarsa divulgazione in campo nazionale furono essenzialmente dovuti alle imperfezioni tecniche rilevate nelle fitte cavillature dei manufatti e nella loro facile permeabilità e ossidazione, nella monotonia del repertorio decorativo e nella scadente qualità degli smalti. I persistenti difetti, imputabili alla inesperienza delle maestranze nelle manipolazioni chimiche e nel dosaggio delle materie prime, derivavano dall'assenza di un vero e proprio progetto di studi tecnici e dalla carenza delle ricerche formali che altre fabbriche italiane, come la Ginori e la Laveno, andavano facendo con diverso impegno già da alcuni anni. Anche il ruolo del pittore Rocco Lentini, proveniente dalla scuola di Francesco Lojacono, direttore tecnico e decoratore fin dal 1883, seppure fosse in grado di proiettare un'immagine di prestigio sull'impresa, si rivelò sul piano operativo poco efficace e in contrasto con le reali inclinazioni dell'artista, più felice come decoratore di ambienti. L'incerta e pressoché marginale presenza dei soggetti ornamentali, meccanicamente trasferiti sui manufatti con la tecnica della decalcomania di invenzione inglese, i motivi a fiori desunti dalle tavole botaniche con eccessivo scrupolo accademico da arte del pittore palermitano, ancorché dipinti a mano sullo smalto ceramico, risultarono, unitamente alle labili dorature, quasi sempre inadeguati alle esigenze della materia e spesso scarsamente aderenti ad una sapiente utilizzazione degli spazi. E d'altronde, anche l'elaborazione della forma degli oggetti, affidata allo scultore Francesco Griffo, allievo di Nunzio Morello, per la probabile mancanza di una vera e propria specializzazione nel settore e per la soverchiante vocazione alla statuaria e al figurismo descrittivo dell'operatore, non brillava di originalità ed eleganza. Sono da ricercare in questi limiti, piuttosto che nella concorrenza dei prodotti stranieri, i motivi di un successo quasi esclusivamente legato a una clientela diffusa, ma non dotata di particolari esigenze estetiche. Gli interventi dell'architetto Ernesto Basile - che avrebbe potuto assicurare all'impresa più efficaci e moderni indirizzi formali - si limitarono di fatto a pochi, anche se preziosi, suggerimenti per la decorazione liberty di alcune mattonelle da utilizzare a ornamento dei prospetti di edifici di sua progettazione, Villa Igiea e il villino Ida di via Siracusa in particolare. L'istituzione della Targa Florio, la gara automobilistica voluta nel 1906 da Vincenzo Florio, conquistato dall'interesse per lo sport e le vertigini della velocità esaltate dai Futuristi, ma poco incline alle attività imprenditoriali gestite dal fratello Ignazio fino alla sua scomparsa nel 1891, coincideva purtroppo con la decadenza di tutte le altre iniziative che l'Isola aveva visto crescere e prosperare. Anche la fabbrica di maioliche - divenuta Società Anonima Siciliana Ceramiche -continuò stancamente la sua attività fino al 1939. Rilevata dalla Richard Ginori nel 1940, forse per evitare potenziali concorrenze meridionali, inattiva fin dall'inizio della guerra, fu smantellata nel 1941, seguendo la stessa sorte che vent'anni prima avevano avuto nel settore della maiolica palermitana la Fabbrica Giachery, in rapporto di collaborazione con le celebri officine di Doccia, e quella, meno nota, dei Fratelli Mongiovì. r.d. (da LA CERAMICA SICILIANA Ed. Kalos) |